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di Donatella
Non l’ho fatto per un senso di onnipotenza. Ormai avevo già pagato tutto: albergo, volo, navetta da Malpensa alla Fiera e ritorno. Di questi tempi perdere i soldi, anche se avevo fatto tutto a risparmio, un’imprenditrice come me – non piccola, ormai microscopica – non se lo può permettere.
Perciò ho chiamato la mia dottoressa, le ho spiegato che dovevo andare a Milano per un paio di giorni e ho chiesto se aveva suggerimenti in particolare da darmi. È sempre gentilissima, mi ha risposto che non c’erano particolari indicazioni, di cercare comunque di mantenermi a distanza, portarmi dietro un disinfettante per le mani, lavarmele il più spesso possibile e non preoccuparmi troppo.
Sono stata a Milano Unica il 4 febbraio e ho girato tra padiglioni che non ho mai visto così silenziosi, in un’ambientazione elegante, composta, in un’atmosfera rarefatta e vigile, con un certo numero di visitatori italiani e nella quasi totale assenza di orientali. Siccome per la fiera un giorno mi era bastato, in attesa di prendere il volo della sera seguente ho trascorso tutto il giorno dopo a visitare il Castello Sforzesco e la mostra su Leonardo.
A fine pomeriggio tutti i custodi, tutti “sudisti”, mi riconoscevano e mi chiedevano a che punto fossi con la visita: “Ha visto la mostra? Il Museo degli Strumenti Musicali? Alla Pinacoteca c’è stata? Allora le manca la Pietà Rondanini. È facile, esca dall’ingresso principale, vada dritta sotto il portale e nell’atrio svolti a sinistra. In fondo al cortile c’è l’ingresso.” A me, romana col nonno materno siciliano, la nonna materna umbra, i nonni paterni pugliesi, un usciere calabrese ricondizionato a Milano, che mi sorride e mi fa una battuta, mi fa sentire a casa.
Da più di dieci giorni patisco brividi di freddo. Sto facendo la spunta sforzandomi di essere razionale. Mal di testa? Soffro di cefalea. Sudore? Stanchezza? La menopausa si avvicina. Febbre? Direi di no. Tosse secca? Difficoltà a respirare? Lo sai che soffri sempre d’inverno di tracheiti. L’altro giorno ho preso un po’ di freddo e sento un lieve fastidio, faccio le prove, trattengo il respiro, ogni tanto ho qualche colpo di tosse. Secca. Sembra che sia ancora tutto in ordine, ma siamo nella fase più critica. Se fossi ammalata tra qualche giorno potrei essere in condizioni molto più serie. E dovrei lasciare il posto a un malato più giovane di me perché io, anche se dentro mi sento ancora il fanciullino, non sono più una ragazzina. C’è voluto un virus per farlo ammettere a me stessa.
Dove? Al bar della fiera? In metropolitana? Mentre firmavo la scheda alla reception o la mattina dopo a colazione? Mentre chiacchieravo con Maria, la custode del Museo? Mentre ero in attesa all’aeroporto?
Tu non avrai la meglio. Io mi farò gli anticorpi e ti dirò ciao, ciao. Ho un figlio da crescere. Ha bisogno di me. Ho bisogno di lui. È di te che non c’è bisogno. Tutto questo passerà e quando sarò vecchia ne parlerò ai miei nipoti: “Ora nonna vi racconta di quando ci fu il Coronavirus”. Forse.
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