Qualche settimana fa, il Consiglio dei Ministri ha finalmente approvato il disegno di legge di riforma dei reati agroalimentari. L’articolato ricalca quello consegnato dal Presidente della Commissione istituita proprio a tal fine, Gian Carlo Caselli, all’allora ministro della Giustizia nell’ormai remoto ottobre 2015.
Di quest’ultimo ci siamo già occupati, più o meno diffusamente, su questo blog, evidenziando in modo succinto le novità più rilevanti che questo provvedimento comporterebbe per la tutela dei prodotti alimentari, dei loro produttori onesti e dei loro consumatori.
La formalizzazione della categoria di patrimonio alimentare e la sua tutela, nonché quella del consumatore medesimo, sono i due assi principali intorno a cui ruota tutto il complesso di norme contenute nella proposta di riforma Caselli: dall’affinamento del sistema sanzionatorio delle frodi alimentari (con la previsione di una specifica aggravante in caso di “falso bio”) alla creazione della emblematica figura di “disastro sanitario”; dall’allargamento della responsabilità da reato delle aziende anche a questo tipo di crimini fino all’introduzione del significativo reato di “agropirateria”.
Con riferimento specifico poi alla protezione del consumatore, e in particolare del suo nodale diritto all’informazione, sono previsti due nuovi delitti: quello di “informazioni commerciali ingannevoli pericolose”, che punirebbe “chiunque mediante informazioni commerciali false o incomplete riguardanti alimenti, pregiudica la sicurezza della loro consumazione con pericolo concreto per la salute pubblica”; e quello di “Vendita di alimenti con segni mendaci”, che si applicherebbe a “chiunque, nell’esercizio di un’attività agricola, commerciale, industriale o di intermediazione di alimenti, al fine di indurre in errore il consumatore, […] utilizza falsi o fallaci segni distintivi o indicazioni, ancorché figurative, ovvero omette le indicazioni obbligatorie sull’origine o provenienza geografica ovvero sull’identità o qualità del prodotto in sé o degli ingredienti che ne rappresentano il contenuto qualificante.”
Quello licenziato dalla Commissione è un buon testo, che prova seriamente a colmare le falle più profonde che il tempo e il tumultuoso progredire della modernità – nonché dei fenomeni criminosi in questo ambito, per entità e qualità – hanno aperto nell’apparato normativo, e sanzionatorio in particolare, di tutela, fondato su reati ideati rispettivamente nel 1962 (quelli della principale legge speciale in questa materia) e nel 1930 (quelli contenuti nel codice penale).
Un testo che, magari, può essere affinato in sede di dibattito parlamentare; ma che non merita di essere bersagliato, come ha prontamente iniziato a fare – immediatamente dopo che la bozza Caselli era stata resa pubblica – quella dottrina penalistica che non dismette mai le posate da pesce e il sopracciglio alzato. Quella stessa dottrina che risulta, a volte, tanto faconda e implacabile censora verso gli sforzi riformatori di chi prova a tappare un vuoto, per non dire una voragine, di tutela – specie in caso di beni giuridici fondamentali, come la salute pubblica – quanto era stata afasica e atarassica di fronte a quella stessa voragine che inghiottiva diritti inalienabili e bisogni sacrosanti di masse di soggetti spesso deboli.
E non è fuori luogo sottolineare che questa curiosa scissione si verifica specie quando si tratta di alcuni tipi di reati e di alcuni tipi di rei: in colletto bianco, per lo più. Succede oggi con la riforma dei reati agroalimentari, è successo cinque anni fa con la legge sugli ecoreati: due riforme che hanno molti punti di contatto, materiali e simbolici. Tanto che, se dovesse passare anche la prima, dopo gli ecoreati si chiuderebbe un cerchio virtuoso di tutela in due dei più nevralgici ambiti della società del rischio cui sono, più o meno, esposti tutti ma proprio tutti i cittadini: cibo e ambiente.
Oggi abbiamo solo da ribadire un auspicio: che l’iter parlamentare che dovrebbe portare questa bozza normativa (perché di questo ancora si tratta) a diventare finalmente legge dello Stato sia appena meno accidentato e defatigante di quanto è stata la prima parte della sua esistenza, ormai nel quinto anno di vita.
Dipenderà da tanti fattori. Anche e soprattutto – proprio come successe ai tempi della legge ecoreati – dalla capacità che avranno i settori più avanzati della cittadinanza attiva e dell’imprenditoria sana di mettersi in rete e in movimento per far sentire sui parlamentari tutta la pressione morale e civile di chi chiede quella che, in fondo, non è che un’espressione del fondamentale diritto a un cibo sicuro. Un diritto dei cittadini-consumatori. Di tutti noi.