Andiamoci piano con la retorica decrescente di quanto è bello starcene tutti a casa a leggere un libro. La maggior parte delle donne e degli uomini che ogni mattina si sveglia per andare a lavorare non lo fa per produrre e nemmeno per fare carriera. Non lo fa per svettare in cima alle classifiche aziendali delle vendite, non lo fa perché è convinta di essere il lavoro che fa o perché non saprebbe come altro impiegare il tempo: lo fa per campare e far campare una famiglia. Lo fa di malavoglia, costretta, perché non non si è bevuta nessuna delle stronzate sulla meritocrazia, sull’aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità e doverlo scontare con gli straordinari forfettizzati in busta paga, il lavoro domenicale, la compressione dei diritti. Lo fa per conservare un reddito quasi mai proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro che svolge.
Lo fa rischiando di ammalarsi e morire per i veleni che respira, il freddo che prende, i carichi che solleva, le macchine che schiva, le minacce che ingoia, la fatica che fa e ora pure il coronavirus. Queste lavoratrici e questi lavoratori oggi, domani, domenica non stanno a casa. Prendono un mezzo pubblico dove è impossibile mantenere la distanza di sicurezza, entrano in una fabbrica, un call center, un ufficio, la cucina di un ristorante, la casa che puliscono, con la paura di contagiare e essere contagiati, con un sistema immunitario debilitato dall’ansia, dalla stanchezza, dall’insonnia prodotta dai turni che cambiano ogni settimana.
E, se stanno a casa, in molti casi è perché a causa delle misure adottate per impedire il contagio hanno perso il lavoro e non sono dell’umore di rileggere Tolstoj, cucinare una crostata come la faceva la nonna, giocare tutti insieme a Monopoli o fare l’amore come fosse agosto. Allo sforzo del governo e di tutti noi per evitare che si diffonda il virus dovrebbe corrispondere uno sforzo identico per evitare che a pagare le conseguenze delle misure straordinarie richieste dall’emergenza sanitaria siano come sempre i più deboli.
Dobbiamo esigere che il governo garantisca a tutti i lavoratori la possibilità fermarsi senza rimetterci il lavoro. Di lavorare da casa o di lavorare (e andare al lavoro) in sicurezza o la cassa integrazione straordinaria, con congedi straordinari per stare con i bambini che non vanno a scuola, garantendo continuità di reddito anche alle partite Iva, ai precari con i contratti in scadenza che non saranno rinnovati.
Dobbiamo esigere una moratoria sui mutui, gli affitti, le tasse, un piano massiccio di investimenti in sanità, welfare, istruzione, ricerca, infrastrutture e ambiente, da finanziare in deficit e con un aumento della tassazione dei redditi alti. Dobbiamo pretendere che il governo faccia la voce grossa non solo con gli irresponsabili che vanno in giro come se niente fosse ma con gli irresponsabili dell’Unione Europea che non concede investimenti in deficit in deroga al Patto di Stabilità, e dunque se non in cambio di riforme (investimenti in sanità in cambio di tagli alla sanità); contro la Germania paladina dell’Europa Unita che si rifiuta di esportare le mascherine e dobbiamo farla pure noi, la voce grossa, con quelli che lamentano il taglio di 70mila posti letto negli ospedali dopo averli tagliati.
(E comunque, o siete tutti capaci di leggere un libro guardando Mentana o boh, non è che dalle finestre aperte si senta Chet Baker). Teniamoci stretti.
Ps. Se in passato qualcuno nelle istituzioni fosse risultato positivo al contagio da amianto, uranio impoverito dei proiettili, Pfas, veleni inalati lavorando alle cokerie crepate dell’Ilva o pascolando le bestie nella Terra dei Fuochi, avremmo già proceduto alla riconversione ecologica delle fabbriche, ritirato le truppe, bonificato le terre, fermato il paese per fermare il contagio e sparato in homepage gli appelli degli youtuber e degli influencer che invitavano tutti a adottare responsabilmente e a costo di rinunciare a qualche privilegio la misura straordinaria del socialismo.