Guardavo ieri con mio figlio il primo film di Checco Zalone, quello in cui il giovane pugliese, ossessionato dalla ricerca del posto fisso, diventa invece famoso facendo il cantante. Pensavo che se quel film fosse girato oggi, ai tempi del virus, il finale sarebbe stati assai diverso. Perché il virus rappresenta una vera e propria cartina di tornasole del nostro mondo del lavoro assurdamente iniquo quanto a tutele, protezioni, regole. Un sistema dove hai gente che ha un lavoro garantito fino alla morte e gente che al massimo ce lo ha garantito per una settimana.
Come per la crisi economica, i primi a pagare il prezzo della crisi innescata dal virus sono i lavoratori autonomi, occasionali, precari, partite iva, i piccoli imprenditori tutto il variegato mondo del lavoro non dipendente. Se tutte le attività chiudono, dal turismo al mondo dello spettacolo, dai ristoranti ai parrucchieri, chi ci va di mezzo sono proprio loro: non c’è più lavoro, non ci sono più soldi, i lavoratori possono restare a casa. Senza stipendio, ovviamente, a differenze dei dipendenti messi in smart working, ferie forzate o, come molti dipendenti pubblici, costretti a lavorare ma con tutte le tutele del caso. Ma non stiamo parlando di poche decine di migliaia di lavoratori, ma di alcuni milioni, se si sommano appunto tutte le svariate forme del lavoro non dipendente, da chi lavora con i voucher ai liberi professionisti iscritti agli ordini. Una immensa fetta di lavoratori, già impoveritisi negli ultimi anni, penso ai professionisti, con stipendi sempre più piccoli e senza alcun salario minimo di base.
Sono e saranno ancora loro, i già deboli e meno tutelati, a subire la crisi, questa volta più devastante delle altre. Il governo si sta orientando a fare un rimborso ai lavoratori autonomi, ma i criteri, al solito saranno molto limitanti. A restarne esclusi, anzitutto, i liberi professionisti non iscritti all’Inps – perché ogni forma di welfare passa da lì – e nella sfortuna ancora più sfortunati, perché costretti per legge a stare dentro un ordine che non li protegge. Ma ne restano escluse tutte quelle centinaia di migliaia di lavoratori “invisibili”, che non hanno caratteristiche definite, magari non hanno partita iva, vivono di collaborazioni occasionali. Fantasmi, appunto, che mai nessun provvedimento raggiunge. E poi c’è il piccolo, anzi grande, esercito di lavoratori in nero. Penso alle baby sitter, colf, insegnanti che ganno ripetizione, insegnanti di sport, musica e tantissimo altro. Certo colpevoli di non pagare le tasse, ma comunque persone che in molti casi perderanno comunque un reddito che gli consentiva di vivere. Senza parlare di chi in nero ci lavorava costretto, perché senza alternative, specie al Sud.
Nell’Italia del coronavirus, resta dunque la tragica verità di Checco Zalone. Ancora oggi, il dipendente, specie pubblico ovviamente, è l’unico al riparo dalla crisi. E questo perché non si è mai provveduto a rendere il nostro mercato del lavoro uguale, perché si è lasciata crescere in maniera incontrollata la fetta dei flessibili che in qualche modo compensava l’inflessibilità degli altri, andando a coprire ogni tipo di mercato, ogni tipo di servizio e lavorando spesso senza straordinari né ferie pagate. È grazie soprattutto ai precari e ai flessibili che si è retta la nostra economia. E’ grazie ai precari che è andata avanti la ricerca e sono andati avanti gli ospedali – lo abbiamo visto in questo frangente, dove una precaria è stata “premiata” con un posto a tempo indeterminato -, tutta gente che ha continuato a lavorare con microstipendi e microtutele, pagando ovviamente in termini di affaticamento, stress, a volte malattia. Mentre i sindacati annaspano, non avendo costruito neanche loro un sistema di rappresentanza di questi lavoratori che sarebbe tornato utile in tempi di crisi. Ad oggi, ovviamente, sono possibili solo misure tampone.
Domani, usciti dall’emergenza, forse, bisognerebbe e ripensare il nostro sistema economico e l’interno mondo del lavoro. Non è detto che sia possibile perché altre crisi potrebbero essere dietro l’angolo, innescate da altri virus oppure da emergenze climatiche. Nel frattempo, la massi di precari nati negli anni Novanta andrà comincerà ad uscire dal mercato del lavoro, ma la maggioranza non avrà che pochi spiccioli di pensione. Se si unisce questo dato all’inverno demografico del paese, potrebbe avvenire il paradosso che non ci saranno abbastanza persone in grado di pagare le pensioni, e dei precari e dei dipendenti. È quanto sta avvenendo ad esempio nel caso delle casse degli ordini di giornalisti, dove i dipendenti sono ormai pochissimi rispetto a una massa di giornalisti autonomi. E dunque si pone il problema di chi pagherà gli stipendi di chi è in pensione. Ma questa è un’altra storia ancora.
Quello che è sicuro, è che il coronavirus non cambierà in meglio il nostro mercato del lavoro. Farà invece emergere tutte le sue dolorose contraddizioni, e penalizzerà i già penalizzati, un po’ secondo il suggestivo detto evangelico. “A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.
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