Negli ultimi 75 anni non ci sono state guerre in Italia, non ci sono state pandemie, non ci sono state carestie. Gli eventi tragici hanno sempre riguardato solo una parte della popolazione, anche quando avevano un impatto nella coscienza di tutti, come negli anni di piombo. Era una percezione, ma non una realtà tangibile, il coinvolgimento personale di tutti. I terremoti e le alluvioni che hanno funestato il paese ci potevano impressionare, magari attivare la solidarietà, ma alla fine c’era sempre un noi-loro. Finché non sono andato all’Aquila il terremoto non era entrato nella mia pelle, non era mio.

Il Coronavirus cambia tutti i giochi e ci mette di fronte a uno scenario antico e nuovo: antico perché rievoca la peste, anche nel linguaggio dei media si parla di untori. E molte famiglie hanno perso qualcuno nel 1918 per la spagnola, non fosse bastata la guerra. Io ho perso un nonno, e questo ha cambiato del tutto il percorso di vita della nostra famiglia. Non ne ero consapevole, ma lo ha fatto. E certamente ne erano consapevoli i miei genitori, e in qualche modo anche nel silenzio lo trasmettevano. Intendo dire che certe catastrofi collettive si depositano comunque nell’inconscio collettivo di un popolo.

Le generazioni dei nonni hanno vissuto guerre e fame, si sono forgiate nell’esperienza della sopravvivenza, nella consapevolezza che non può esistere una sicurezza assoluta, che le prove individuali e collettive arrivano. Noi lo dobbiamo imparare adesso. All’inizio forse tutti abbiamo minimizzato: accade in Cina, pochi casi da noi, peccato per quei piccoli comuni lombardi, pochi morti ed erano vecchi e malati… Ci siamo tappati gli occhi finché è stato possibile.

Su Il Fatto Quotidiano i medici hanno raccontato che spesso devono scegliere se ventilare un quarantenne o un sessantenne, se hanno un solo apparecchio. Non mi ha rassicurato la notizia, appartenendo a pieno titolo alla seconda categoria.

La precarietà colpisce tre aspetti: la sopravvivenza fisica, quella economica e l’abbandono di stili di vita nelle relazioni che ci vengono richiesti. Tutto questo ha un impatto enorme sulla psiche, e noi lo vediamo con i nostri pazienti. L’ansia che ci portano è anche la nostra, il timore di “essere unti” o di “essere untori”, per qualcuno la negazione. A mio pare è necessaria una psicologia dell’emergenza, come nelle grandi calamità, ma diversa per la prescrizione di non vedere gruppi troppo numerosi o vicini. Bisogna allora attrezzarsi e raggiungere chi ha bisogno con Skype e tutti gli altri mezzi possibili, fare degli sportelli d’ascolto che vadano incontro alle diverse esigenze.

Per qualcuno è ansia, per qualcuno è lutto, per qualcuno è uno sconcerto profondo, per qualcuno una ben fondata disperazione. Come i medici, dobbiamo fare la nostra parte, sempre attenti a ciò che noi stessi proviamo, perché stavolta il professionista è nella stessa barca, nella stessa tempesta. Se stiamo a casa possiamo riscoprire spazi e tempi che avevamo perso, cercare quindi di “Collaborare con l’inevitabile”, come scriveva l’imperatore filosofo Marco Aurelio.

Qualche bel segno c’è. L’azione solidale dei giovani musulmani che portano la spesa agli anziani ci sia di esempio: questo deve essere un tempo di prudenza, non di sospetto e paranoia.

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Coronavirus, forse queste autodichiarazioni si potevano gestire meglio

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