L’eccezionale Dpcm 8 marzo 2020 [Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. (20A01522) (GU Serie Generale n.59 del 08-03-2020)] è stato la sublimazione della manifesta incapacità del legislatore di legiferare norme cogenti (dal latino cogens-entis, participio presente di cogère, costringere). Norme che, come sostengo da sempre, per essere tali devono essere chiare, inequivocabili, prive di ambiguità, coerenti e conformi con la semantica. Perché come ci ricordava Nanni Moretti con enfasi indimenticabile, “le parole sono importanti”.

Se in Italia v’è un carico di contenzioso notevole, pendente nei Tribunali di ogni ordine e grado, che spesso vanifica la tutela di diritti fondamentali, lo si deve non solo alla litigiosità nostrana, non solo ad uno Stato approssimativo, non solo ad un ipertrofico individualismo, non solo alla notoria furbizia che ci contraddistingue, ma anche e soprattutto alle fonti legislative scritte male, lacunose, ambigue, contraddittorie, oscure, piene di rimandi. Un gravissimo (per le conseguenze) caso di analfabetismo legislativo, esibito costantemente dal più alto scranno.

L’Italia è probabilmente l’unico Stato dove, ad esempio, il divieto di fumo non viene espresso semplicemente con “E’ vietato fumare” ma con “E’ assolutamente vietato fumare”, come se il rafforzativo giuridicamente avesse un senso. In Italia per vietare o sanzionare una semplice condotta la si deve descrivere in più righe, più commi, ove non più articoli. In Italia per scrivere una fonte la si deve anticipare con decine di righe di rimandi a estremi di altre fonti, roba che se non hai una banca dati giuridica e molta pazienza non riuscirai mai a interpretare.

L’ultimo fulgido esempio è stato proprio il Dpcm 8 marzo 2020, che seppure urgente, proprio per l’eccezionalità (c’è da arginare un’epidemia, mica l’allergia!) avrebbe preteso una tecnica di scrittura inequivocabile, in modo da renderlo ineludibile. Invece già si annunciava una circolare, che avrebbe dovuto chiarire ciò che evidentemente non era chiaro affatto. A conferma dei tanti dubbi che in sole 24 ore erano stati già manifestati. Mi riferisco ovviamente al suo passaggio chiave, tralasciando tutte le contraddizioni in seno al decreto.

L’art. 1, lett. a) sancisce di “evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute. E’ consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza”.

Ora, evitare secondo Treccani è “in senso ampio, cercare, procurare, fare in modo di (e in qualche caso, anche senza l’intervento della volontà, riuscire a) non fare o ricevere, o incontrare, subire, provocare, ecc. cosa sgradita, o che potrebbe recare danno o molestia, o che per qualsiasi motivo costituisca o appaia un male”. Non a caso spesso il medico lo adopera per “eviti di fumare”.

Se l’intento era, come è parso di capire a tutti e come viene pure spiegato in Tv, di vietare, allora avrebbe dovuto, senza alcun dubbio per tutti, essere scritto in modo ben diverso, ossia “è vietato ogni spostamento”. Invece proprio il grave pressappochismo della scelta di adoperare semanticamente “evitare” invece di “vietare”, che curiosamente comporta solo lo spostamento di una sola lettera in seno alla parola, vanifica per intero la sua applicazione.

Non è un caso che il primo ad aver ribadito tale lacuna sia stato proprio il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, il quale ieri ha pubblicamente dichiarato che il governo “ha invitato tutti i cittadini lombardi”. Dunque se invito deve essere, esso diviene una mera raccomandazione, un buffetto, un rimbrotto, appunto un invito al senso di responsabilità che ovviamente manca e mancherà.

Si aggiunga, come ciliegina sulla torta, l’uscita del ministro Vincenzo Spadafora di pretendere la sospensione della serie A, quando proprio il Dpcm 8 marzo 2020 prescriveva sempre all’art. 1, lett. d) che “Resta consentito lo svolgimento dei predetti eventi e competizioni, nonché delle sedute di allenamento degli atleti professionisti e atleti di categoria assoluta che partecipano ai giochi olimpici o a manifestazioni nazionali o internazionali, all’interno di impianti sportivi utilizzati a porte chiuse, ovvero all’aperto senza la presenza di pubblico”, esattamente ciò che è avvenuto poi. E’ doveroso chiedersi se i ministri leggano i Dpcm.

Scritte queste riflessioni, molte ore dopo veniva varato il Dpcm 9 marzo 2020, che pare in punto di accogliere appieno le mie critiche, atteso che all’art. 1 è scritto finalmente in modo chiaro che “Sull’intero territorio nazionale è vietata ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico”, oltre a modificare il precedente Dpcm per vietare le manifestazioni sportive.

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