di Luigi Manfra*

L’agricoltura e l’industria sono i maggiori consumatori di acque dolci del mondo. Ne consumano rispettivamente il 70% e il 19%. I dati recenti della piattaforma Aqueduct del World Resources Institute mettono in evidenza come anche la domanda di acqua domestica sia cresciuta a un ritmo più veloce, ma non a causa degli usi diretti, che incidono relativamente poco sui consumi idrici complessivi, ma per gli usi indiretti come, ad esempio, i 19mila litri di acqua dolce necessari a produrre un kg di caffè, i 15mila per un kg di carne, i 196 litri per un solo uovo di gallina.

Da un punto di vista geografico la crisi idrica assume una dimensione drammatica nel Medio Oriente, l’area del mondo più carente di risorse rispetto al fabbisogno della popolazione. Il volume di acqua disponibile per abitante, in un’area che si estende dal Marocco all’Iran, è crollato nell’arco di due generazioni, passando da 3.400 metri cubi nel 1960 ai 650 metri cubi previsti nel 2025, quindi ben al di sotto della soglia minima di 1.000 metri cubi fissata dalla Banca mondiale.

Dal recente rapporto del World Resources Institute emerge come 17 paesi del mondo, corrispondenti ad un quarto della popolazione mondiale, siano a rischio idrico molto alto. Dodici di questi appartengono al Medio Oriente, con il Qatar al primo posto. Questi paesi, che di base hanno modeste risorse idriche, ne fanno spesso un uso dissennato, mentre il cambiamento climatico aggrava ulteriormente il quadro riducendo il reintegro delle riserve idriche di profondità e di superficie.

Nell’area mediorientale, soltanto Israele è il paese dove il principio della sostenibilità idrica, soprattutto negli ultimi anni, è stato perseguito con investimenti massicci e innovazioni tecnologiche. Ma Israele se lo può permettere, avendo un reddito pro-capite analogo a quello dei paesi occidentali e una ricerca scientifica e tecnologica di alto livello con cui il paese ha affrontato la siccità ricorrente dell’area.

Il paese, nell’ultimo decennio, ha attuato un vasto programma di desalinizzazione, che assicura ormai oltre il 50% del fabbisogno del paese, con impianti che hanno migliorato le tecniche e ridotto i costi dell’acqua. Nello stesso periodo, ha realizzato numerosi impianti di depurazione che trattano il 90% delle acque reflue riutilizzate soprattutto in agricoltura. Ma la sostenibilità idrica del paese poggia anche su altri strumenti.

Nel 1967, con la guerra vinta in soli sei giorni, Israele insieme ai territori ha preso anche il controllo delle maggiori fonti idriche dell’area, a partire dal fiume Giordano di cui oggi utilizza il 58,7% delle acque, mentre il resto dei prelievi è diviso tra Giordania (23,4%), Siria (11%) e Libano (0,3%). In una prima fase l’acqua fu canalizzata verso i centri abitati del deserto del Negev. Grazie ai tubi dell’acquedotto israeliano, venivano trasferiti ogni anno 420 metri cubi d’acqua dal fiume Giordano verso il deserto. Di recente Israele ha deciso di utilizzare l’acqua del Giordano nell’area limitrofa di Haifa, mentre al deserto è destinata l’acqua proveniente dai nuovi impianti di desalinizzazione.

Infine va sottolineato come la suddivisione delle risorse idriche con i palestinesi sia diventata di anno in anno sempre più conflittuale. Sulla base degli accordi di pace del 1995, la distribuzione di acqua tra israeliani e palestinesi sarebbe dovuta essere rispettivamente all’80% per i primi e al 20% per i secondi, in attesa di uno statuto definitivo che avrebbe dovuto dare vita allo stato Palestinese e ai confini di quello israeliano.

Oggi i palestinesi hanno accesso solo al 14% delle risorse dei bacini. Inoltre la gestione comune si è rivelata molto difficile. Si va infatti dall’impossibilità per i palestinesi di costruire nuovi pozzi, agli intralci burocratici per i progetti infrastrutturali, fino ai blocchi alla dogana israeliana di componenti per gli impianti. In definitiva mentre l’autosufficienza idrica di Israele è un obiettivo quasi raggiunto, la situazione palestinese diventa sempre più drammatica.

In questo quadro così allarmante va sottolineato come ci sia una grande differenza tra diritto sulle acque, regolamentato dal diritto nazionale di ogni paese, e diritti umani all’acqua. Il primo appartiene a un soggetto in ragione dei diritti di proprietà, oppure a seguito di un accordo negoziato tra Stato e proprietari. Questo diritto, però, può essere revocato con varie misure di carattere legislativo. Al contrario i diritti umani all’acqua non sono soggetti all’approvazione statale e non possono essere revocati. L’acqua, infatti, è, prima di ogni altra cosa, un bene comune che appartiene all’intera umanità.

* Responsabile scientifico del Centro studi Unimed, già docente di Politica economica presso l’Università Sapienza di Roma

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