Per stare a casa mi sono sempre impegnato. Ho iniziato nel 1996 quando con determinazione andai dal grigio ragioniere dell’azienda in crisi e gli chiesi di esser messo in cassa integrazione. “Eh no, non è possibile” mi disse. “Ma come?” gli dissi io. Alla fine lo convinsi facendo leva sul fatto che c’erano persone che avevano più bisogno di me di quel lavoro.”Io ti metto in cassa integrazione, prima però devi consumare le ferie” disse il ragionier grigiore. E feci anche quel sacrificio.

Avevo 27 anni, vivevo coi miei, sarei stato pagato per stare a casa. In poche parole, ero ricco. Seguirono due anni da cassintegrato fantastici, più uno di mobilità; lo consiglio a tutti i giovani che vogliono stare a casa in alternativa al reddito di cittadinanza, ai vecchi no, non lo consiglio. Forse.

Fu in quegli anni che studiai per lavorare da casa. Grazie all’invenzione di internet ciò sarebbe stato possibile, lo sentivo, me lo immaginavo e così sarebbe diventato molto tempo dopo. L’unico ostacolo è sempre e solo il datore di lavoro che ti vuole vedere lì, anche a non fare nulla, ma ti vuole in un ufficio insieme ad altre presenza imposte che magari prendono pure un treno per venire anche loro lì a fare cose che potrebbero fare da casa.

E’ un malcostume molto diffuso, eludibile solo con l’apertura di una partita iva che sconsiglio a tutti, ma se vuoi veramente fare lo smart worker (che è uno che può lavorare anche da un altro posto e non solo in quell’ufficio) è l’unica strada possibile o meglio, lo era fino a ieri quando il presidente del consiglio ha parlato e ha liberato i lavoratori dipendenti dall’insulsaggine della presenza fisica in un luogo. Ora anche loro possono finalmente dire #iostoacasa.

Ma io dico, c’era bisogno del coronavirus per condividere questa bellezza? Sì.

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