In tanti anni di vita e lavoro, non avrei mai pensato di scrivere un post come questo o provare a suggerire una iniziativa del genere. I tricolori alle finestre, di solito, li vediamo durante le partite della nazionale, che per quanto mi riguarda non mi hanno mai fatto sentire parte di una nazione, perché il calcio è solo uno sport e per di più uno tra i tanti. Per questo, anzi, l’idea che ci dovessimo sentire una comunità solo per il calcio mi ha sempre irritato.
In generale, non mi sono mai sentita pienamente italiana, più che altro cittadina del mondo (davvero, senza retorica). Anzi nell’Italia mi sono raramente riconosciuta, specie a causa delle sue piaghe croniche. Non solo per la corruzione e per la mafia, non solo per la classe politica di basso, a dir poco livello. Ma soprattutto per quella visione corta degli italiani che punta solo a sopravvivere, senza visione, senza lungimiranza, solo con l’intento miope di perseguire il proprio scopo. E, anche, quell’accettazione passiva di ciò che non va, quel fatalismo insopportabile quasi che le cose non dipendessero da noi. Tutto ciò ha causato la devastazione dei servizi, del welfare, dello stato. E infatti in questi questi anni ho scritto centinaia di pezzi su come si vive in altri paesi, su quanto sia meglio essere donne e madre altrove, piuttosto che qui.
Eppure oggi mi sento davvero fiera di essere italiana, qualcosa che mi è sempre apparso essere retorico e basta. Lo dico per tre motivi. Anzitutto, la reazione delle istituzioni. Pur con limiti, errori, pur con lentezze, alla fine il governo primis e i governatori delle Regioni hanno fatto la cosa giusta, preso le misure giuste. Non c’è stato conflitto tra maggioranza e opposizione, che non vuol dire in questo caso inciucio, ma collaborazione in vista del bene comune. Conte si è dimostrato una persona in grado di capire la realtà di ciò che stava accadendo e di questi tempi non è poco. In secondo luogo, ovviamente, lo sforzo incredibile, direi davvero sacrificio, di tutti i professionisti sanitari, che si espongono ogni giorno al contagio lavorando per ore e ore per stipendi, diciamolo, che sono la metà di molti loro colleghi tedeschi, svizzeri o francesi. Gli applausi che hanno ricevuto sono un piccolo risarcimento simbolico perché ciò che hanno fatto e stanno facendo è immane.
Infine, la popolazione italiana. A parte il dramma carcerario, con numerose vittime di cui poco si è parlato, non ci sono state reazioni di protesta violente, né manifestazioni, né boicottaggi. E non era scontato. Centinaia di migliaia di persone hanno perso il lavoro, moltissime tra loro non guadagnano più perché autonomi o commercianti, molti non avranno rimborsi. Eppure tutti hanno chiuso le serrande con dignità e silenzio. Uno sforzo straordinario lo stanno facendo anche le famiglie, chiuse in casa senza possibilità di uscire, sottoposte a una dura quarantena, specie quelle numerose, specie quelle con figli disabili, specie quelle con case piccole, buie, senza spazi esterni. Tantissime le manifestazioni di solidarietà ad ogni livello, alcune molto commovente, tutte comunque importanti. Tutto ciò non era scontato.
Ma un ulteriore motivo per sentirsi soddisfatti di essere italiani lo si ha comparando cosa stanno facendo gli altri paesi rispetto a noi. È passato relativamente poco tempo dall’inizio della nostra serrata eppure dal nostro punto di vista ci sembra allucinante vedere un Boris Johnson decidere di mandare il paese nel baratro, pur di non fermare l’economia. Inverosimile e assurdo vederlo dire di prepararsi a perdere i propri cari, ma al tempo stesso non fare nulla per questo, anzi assoldare virologi di stato a lui favorevoli per supportare la tesi dell’immunità di gregge, che porterà, secondo le stime più favorevoli, a mezzo milione di morti. Anche Germania e Francia si sono mosse più lentamente, con la Merkel che parlava del 60% dei tedeschi contagiati, salvo fare marcia indietro e Macron che tiene aperti i seggi elettorali pur chiudendo tutto. E poi gli Stati Uniti, anch’essa in preda a una schizofrenia istituzionale, con Trump che minimizza fin che può poi decide che è un’emergenza, ma si rifiuta, comportandosi come un minore, anzi peggio, di farsi un tampone, un esempio devastante per la sua nazione (successivamente lo ha fatto, ma il danno era fatto).
E dunque, alla fine, sono contenta che il virus mi abbia “colpito” qui, in Italia. Dove anche i mezzi di informazione stanno facendo un buon lavoro, a maggior ragione se pensate che ormai nei giornali si lavora in condizioni difficilissime, perché il lavoro è tantissimo e i soldi pochissimi, l’editoria è un settore distrutto da tagli e concorrenza del digitale. Nessun paragone con i medici, ovviamente, però anche il nostro servizio è essenziale e molti colleghi si stanno esponendo per garantirlo. Bene ha fatto il governo a lasciare le edicole aperte, segnalando che quello all’informazione è un diritto essenziale.
E dunque questa volta, non per una partita di calcio, finalmente possiamo sentirci una comunità solidale. Facciamo sì che questo sentimento di unità, che non significa spegnere la democrazia né il contrasto di opinioni, possa solidificarsi. Perché ci sarà utile: sia se avremo altre crisi, che probabilmente arriveranno, forse meno intense, forse più – mi riferisco, ahimè, all’emergenza climatica -; sia che tutto tornerà come prima. Difficile che sia così. Per certi versi non auspicabile, dal punto di vista dei sentimenti collettivi e dell’anteporre il “noi” all'”io” che siamo riusciti a mettere in pratica, guadagnandone sicuramente in termini etici e dunque, anche se non sembra, di felicità.
E nel frattempo, allora, appendiamo un tricolore alle nostre finestre.
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