La situazione del carcere può diventare tragica da un momento all’altro, con grave pericolo per tutti noi cittadini. Antigone ha pubblicato un appello insieme a Cgil, Anpi, Arci e Gruppo Abele per spingere il governo ad adottare misure urgenti. A breve si riunirà il Consiglio dei ministri. È fondamentale che ne esca con alcuni seri provvedimenti deflattivi. Il ministro Bonafede ha affermato che “lo Stato non arretra” di fronte alle proteste dei detenuti. Cosa significa? Quale sarebbe l’arretramento?
Cominciamo col dire che, come lo stesso ministro ha riportato, solo 6.000 detenuti su oltre 61.000 hanno preso parte a disordini violenti. Per tutti gli altri si è trattato di pacifiche rimostranze di fronte a misure insufficienti a far fronte a un pericolo sanitario incombente e a una situazione di chiusura dei colloqui visivi con le famiglie poco spiegata e non affiancata da un potenziamento di quelli telefonici. Pacifiche rimostranze del tutto comprensibili e che necessitano di una risposta urgente.
Lo Stato arretrerebbe, secondo Bonafede, se trasformasse alcune pene carcerarie in misure di controllo di altro tipo, essenzialmente la detenzione domiciliare. Far uscire dal carcere un certo numero di detenuti – scelti tra coloro che hanno pene brevi da scontare, che hanno tenuto comportamenti corretti, che hanno una salute particolarmente cagionevole – e mandarli a chiudersi nelle loro abitazioni costituirebbe secondo il ministro una forma di resa.
Ora: non voglio spiegare quel che troppe volte ho scritto anche su queste colonne, vale a dire che le misure alternative alla detenzione sono una pena a tutti gli effetti. Non voglio ripetere che la nostra Costituzione cita le pene usando la forma linguistica del plurale, riconoscendo che il carcere non sia la sola possibilità di punizione. Non voglio far riflettere sul controllo estremo cui è sottoposta la persona in misura alternativa, sul rigido programma per lui stabilito dal magistrato di sorveglianza, sui controlli di polizia, sulle relazioni del servizio sociale che al primo sbaglio possono annullare ogni autonomia di movimento. Non voglio qui sottolineare quel che ogni giurista sa bene, e cioè che la certezza della pena non è affatto incompatibile con la previsione di misure alternative alla detenzione, poiché queste ultime sono un altro tipo di pena ma sono tuttavia certissime, hanno un inizio e una fine, un rigido percorso, un ancor più rigido controllo.
Voglio dire altro. Voglio dire che io, da cittadina, sono terrorizzata all’idea che il virus possa fare ingresso in qualche carcere. Girano voci che l’abbia già fatto, a volte smentite, a volte ripetute. Non si sa ancora nulla. Le carceri in Italia sono quasi 200. Se il virus entrasse in tre, quattro, sette, dieci istituti, si propagherebbe immediatamente a tutte le persone lì rinchiuse. Sicuramente ai detenuti, ma quasi altrettanto sicuramente ai poliziotti e agli altri operatori. Immediatamente avremmo migliaia di malati in più da gestire. Immediatamente, tutti insieme.
Il diritto alla salute è un diritto universale, che prescinde dallo stato di detenzione o di libertà. Spero che nessuno vorrà pensare che a quel punto lo Stato avrà meno dovere verso i malati detenuti. Se quindi si ammaleranno in migliaia, tra cui molti giovani, peseranno drammaticamente sulla nostra sanità già allo stremo. I respiratori andranno portati in carcere. Quindi, ne avremo di meno noi fuori. Qualche malato in più, tra le persone libere e incensurate, resterà senza.
Lo Stato, secondo la strana interpretazione di Bonafede, non avrà arretrato. Ma avrà messo a rischio qualcuno dei suoi cittadini. Siamo ancora in tempo per evitarlo. Ma basta con gli slogan. Che il buon senso di tutti resti unito contro il coronavirus.