Il 17 febbraio scorso chiudevano gli asili del Comune di Milano.

Nella chat delle mamme (perché nelle chat delle scuole siamo solo mamme, come se la responsabilità delle scelte fosse ancora tutta solo nostra?) del mio asilo ci si domandava già da qualche giorno come fare, di fronte all’emergenza Covid-19, con asilo, babysitter e persone di servizio. Molte di noi, incinte di un secondo o un terzo bimbo o semplicemente impaurite dalla situazione, sceglievano di non correre il rischio, sobbarcandosi completamente della gestione del pargolo. Tutto il resto via, via, via, perché per noi, in fondo, non conta null’altro se non la salute di nostro figlio o dei nostri figli. E solo in seconda istanza la nostra, e molto importa perché come potrebbero fare i nostri piccoli senza di noi? Loro hanno bisogno di noi.

Alcune hanno scelto di restare in città, altre di andare in montagna. Altre, fortunate, all’estero in vacanza. Altre al mare, o ancora, in altre città, vicino ai nonni, non ancora pienamente consapevoli del fatto che portare i bimbi dai nonni li avrebbe messi in serio pericolo. Napoli, Salerno, Firenze.

Anche a me è successo. Sono partita per Roma, dalla nonna putativa, e ci siamo fatti un po’ coccolare, per un giorno solo (alla luce dei fatti, le coccole più angoscianti della mia vita, per le due settimane successive).

D’altronde, noi mamme di bimbi al nido e alla materna, abbiamo, dopo un po’, bisogno di aiuto. Siamo state tanto tempo sole dopo il parto e questo periodo ci assomiglia un po’.

Sia che siamo mamme realizzate sia che siamo mamme in carriera, questo per noi è il periodo più complesso dalla nascita dei nostri figli. E parlo degli asili, sia chiaro, perché è un mondo che conosco, e perché tutte le età dell’asilo sono momenti speciali per i bimbi: non stanno mai da soli, hanno bisogno della mamma o di una persona che li segua sempre sempre sempre. Sfido chiunque a trovare un bimbo che legge da solo o gioca da solo per più di cinque minuti. Il mio, poi, è particolarmente attivo, quindi, impensabile che ti lasci tempo per te.

Noi non sapevamo cosa ci avrebbe aspettato poi. Forse, avessimo avuto la palla di vetro, avremmo preso decisioni differenti. Lo abbiamo fatto generosamente, come sempre, anche pensando di avere una mano dai nostri compagni, per un periodo limitato di tempo. Avremmo fatto a un quarto e tre quarti.

D’altronde, anche il sindaco di Milano faceva girare i video di Milano Never Stop. Milano non si fermava, e anche noi avremmo lavorato e tenuto il bimbo insieme, cercando un equilibrio sopra la follia. La notte, come faceva Fenoglio dopo il turno alle Poste, per scrivere i suoi romanzi.

Non era ancora il momento dei negozi chiusi. Non era il momento dei parchi chiusi. Non era il momento delle librerie serrate. Era il momento di stare attente, e questo sarebbe bastato.

Noi ci eravamo fermate. Avevamo, però, come ha scritto Cristina Tajani, assessora alle Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane del Comune di Milano, Cambiato Ritmo (vedi l’hashtag #milanocambiaritmo). Inevitabilmente. Abbiamo scandito le nostre giornate in modo diverso. Una boccata d’aria. Un gioco con la palla in piazzetta, un saluto ai vicini di casa. La sera sempre in casa, mai un’uscita, non un’aperitivo, non una cena.

Non ci lamentavamo, anche quando alcune persone, su Facebook, scrivevano che abbiamo voluto noi i figli, e che quindi adesso è inutile, appunto, che ci lamentiamo e poi facciamo finta di fare la famiglia felice.

Poi hanno chiuso proprio tutto, da una settimana a questa parte. Per noi, mamme di Milano, è passato un mese che praticamente siamo al “servizio” della famiglia: ognuno ha cercato di farlo con educazione, senza strombazzare troppo il sacrificio di non poter scegliere quale serie tv scegliere. Abbiamo cercato un aiuto da un papà che è sempre e troppo secondario, anche un po’ inevitabilmente, perché il bambino cerca noi, e anzi trova particolarmente “originale” questa sua presenza in casa…

Per tutto il resto d’Italia, è stata solo la prima settimana di clausura. Ne mancano altre due. In una sola settimana di clausura, si è scatenata una guerra di parole e fazioni tra i costretti a casa, poco piacevole. Noi, che siamo abituate al sacrificio, lo stiamo osservando come un brutto spettacolo.

Fotografi di chiara fama danno addosso a persone che corrono nelle città per sfogare un po’ di stress, persone che offendo le altre, per il puro gusto di farlo. Persone che fanno delazione di comportamenti altrui, comportamenti anche corretti, ma che ormai, il giudicatore predicatore social media, considera sconsiderati.

Noi ragazze, che non abbiamo festeggiato l’8 marzo, il giorno più difficile forse dopo l’11 settembre 2001, potremmo e dovremmo fare un ulteriore sforzo. Come dice Di Maio, alle mamme (e ai anche papà, ha aggiunto la D’Urso che intervistava) “tenere insieme la famiglia”. Forse, chi non lo è, e ha un po’ di tempo in più, potrebbe invece dare una mano segnalando le follie e le arretratezze che si stanno verificando in questo periodo.

Teniamo traccia degli aggettivi sbagliati, delle offese gratuite, delle persone che parlano dal pulpito del loro altare. Teniamone traccia per poter fare un ragionamento sul “dopo”. Perché dopo l’11 settembre eravamo tutti contro i terroristi. Oggi, con questo virus, rischiamo di impazzire, e di fare il tutti contro tutti.

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