“La meravigliosa peste / Che libera barbarie all’aria / Che libera il tremendo dentro / Dentro ognuno ad uno ad uno / La peste virale che libera e fa uguali / Che libera e fa uguali” canta Vinicio Capossela.
Già, la peste, paura atavica eppure così moderna, se non post-moderna. Spaventa perché viaggia e si riproduce proprio grazie al nostro essere sociali, cioè umani. Vive di contagio, ci spinge a temere il prossimo. Quella paura di manzoniana memoria sembra essersi materializzata oggi, nelle nostre strade, negli uffici, nelle case, con il volto nuovo del coronavirus che viene peraltro dalla Cina, Paese con cui intratteniamo rapporti a dir poco ambigui. Diffidiamo della Cina e dei cinesi, ma affidiamo loro il ruolo di produttori di gran parte delle cose che usiamo e a cui diamo molto valore (vedi smartphone, tablet, computer, ecc).
Il pericolo del virus non va certo sottovalutato e sarebbe bene ne parlassero solo gli specialisti, con il linguaggio e i toni adatti alla circostanza. Ma siamo nell’era della comunicazione e questa, spesso, prende il sopravvento sui contenuti. Basta fare zapping a qualunque ora e si trovano sempre programmi, di vario tipo, in cui si parla del virus, con competenze non proprio sempre specchiate.
Tanto tuonò che piovve, recita il detto e un fenomeno, certamente importante, si è trasformato in un dramma collettivo, vissuto più in modo emozionale che razionale. Tralasciando il penoso e tossico tentativo di strumentalizzare politicamente la questione (per fortuna caduto nel vuoto) la reazione di molti italiani appare davvero improntata di una paura che ricorda le pesti antiche. Che senso hanno le code ai supermercati per l’accaparramento di cibo? Si pensa di chiudersi in casa per mesi, senza mai uscire?
Il pericolo esiste, certo, ma andrebbe anche ridimensionato. Non ci allarmiamo così tanto per i 300-400 morti che l’influenza causa ogni anno in Italia. Se poi consideriamo che finora in tutto il mondo il coronavirus ha causato circa 6660 vittime, mentre negli ultimi 20 anni i fenomeni meteorologici estremi aggravati dal cambiamento climatico ne hanno provocate 500mila, ci rendiamo conto che le nostre paure si nutrono in gran parte di percezioni fondate sull’immaginario.
L’influenza è “di famiglia”, la conosciamo, ci sembra un normale “male di stagione”, ci conviviamo da tempo. Il coronavirus è “straniero” e perlopiù cinese, scatena timori reconditi legati al contagio, in un’epoca in cui siamo sempre più diffidenti nei confronti dell’altro, visto come portatore di ogni male. Il virus è subito stato associato allo straniero (era accaduto la stessa cosa con l’Hiv: stranieri e omosessuali, cioè diversi) e il senso di pericolo viene amplificato. La paura è altrettanto contagiosa del virus; se poi alimentata da una sovraesposizione mediatica la sua influenza sul nostro immaginario aumenta a dismisura.
Questo caso, al di là della gravità che, ribadisco, non va sottovalutata, rivela quanto siamo vittime dell’informazione e quanto viviamo in un’epoca di paure, in cui le emergenze sembrano inseguirsi l’una con l’altra, causando uno stato di allarme perenne, di tensione continua, di surriscaldamento sociale, che rende sempre più difficile guardare con occhi sereni ciò che ci accade intorno.