È un’ipotesi al momento ancora tutta da verificare. Ma gli scienziati valutano anche la possibilità che Sars Cov2 che provoca la malattia Covid 19 possa seguire un modello stagionale simile ad altri virus respiratori, come l’influenza per esempio. E che, come anticipato all’AdnKronos Salute nei giorni scorsi dal virologo Robert Gallo, il nuovo coronavirus potrebbe essere in grado di circolare con effetti devastanti solo a determinate latitudini: “Le zone di massima diffusione si trovano tutte in una latitudine tra 30° e 50° Nord“, precisa oggi l’esperto.
I ricercatori dell’Istituto di virologia umana dell’Università del Maryland hanno infatti eseguito un’analisi sui dati di modellazione meteorologica nei Paesi in cui il virus ha preso piede e si è più diffuso all’interno della comunità. In un nuovo articolo pubblicato sul sito open access Social Science Research Network (Ssrn) spiegano che tutte le città che manifestano focolai significativi hanno climi invernali molto simili, con una temperatura media da 41 a 52 gradi Fahrenheit (8-11°C), un livello di umidità medio dal 47 al 79% e una ristretta distribuzione est-ovest lungo la stessa latitudine di 30-50°. Ciò include Cina, Corea del Sud, Giappone, Iran, Italia settentrionale, Seattle e California del Nord. E nelle aree in cui il virus si è già diffuso all’interno della comunità, come Wuhan, Tokyo e Milano – hanno anche notato gli studiosi – le temperature non sono mai scese al di sotto del limite di congelamento. A differenza di quanto avvenuto in Russia che registra pochi casi.
“Sulla base di ciò che abbiamo documentato finora, sembra che il virus abbia difficoltà a diffondersi tra le persone in climi tropicali più caldi”, ha dichiarato il primo autore dello studio Mohammad Sajadi, professore associato di Medicina presso l’Institute of Human Virology. “Ciò suggerisce che, una volta che le temperature medie superano i 54 gradi Fahrenheit (12 gradi Celsius), il virus può essere più difficile da trasmettere, ma questa è ancora un’ipotesi che richiede più dati per essere verificata”. Al momento nel continente africano si sono registrati ufficialmente una decina di morti.
Insomma, “attraverso questa vasta ricerca, è stato determinato che la modellistica meteorologica potrebbe potenzialmente aiutare a prevedere la diffusione di Covid-19, evidenziando le regioni che hanno maggiori probabilità di essere a rischio di significativa diffusione della comunità nel prossimo futuro”, commenta Robert Gallo, cofondatore e direttore dell’Istituto di virologia umana presso la School of Medicine dell’Università del Maryland. “Oltre alle variabili climatiche – aggiunge – ci sono più fattori da considerare quando si ha a che fare con una pandemia: la densità della popolazione umana, fattori umani, evoluzione genetica virale e patogenesi. Questo lavoro illustra come la ricerca collaborativa possa contribuire a comprendere, mitigare e prevenire le minacce rappresentate dalle infezioni”. “Questo studio – commenta il decano dell’ateneo di Baltimora Albert Reece – solleva alcune teorie provocatorie che, se corrette, potrebbero essere utili per aiutare le strategie di salute pubblica”.