Cronaca

Coronavirus, in Lombardia pazienti Covid in Residenze per anziani. Sindacati: “Non è soluzione: non hanno spazi e mascherine”

L'assessore Gallera: "Niente panico, li mandiamo solo dove è possibile separare padiglioni e personale". Ma le strutture hanno pochissimo personale non attrezzato nè addestrato per questo tipo di pazienti

Usare i letti delle Residenze Sanitarie assistenziali per anziani (Rsa) per decongestionare gli ospedali? “Non è la soluzione”. Lo sostiene sia chi le strutture le gestisce, sia chi ci lavora (e bisogna vedere cosa ne pensa chi paga le rette). “C’è un bisogno disperato di liberare posti in ospedale, ma le Rsa non sono adatte, non hanno gli spazi, non hanno strutture separate, non hanno dispositivi di protezione individuali e non hanno personale formato per gestire questo tipo di pazienti. Chiamano addirittura noi al sindacato per avere indicazioni su come sono strutturati gli ospedali, per capire come comportarsi. Non sono strutture per acuti”, commenta a ilfattoquotidiano.it la segretaria generale della Fp Cgil Lombardia, Manuela Vanoli nelle ore in cui inziano a circolare le prime ipotesi in merito.

IL FOCOLAIO BRESCIANO – Non tutte le Regioni, però, la pensano come lei. Proprio in Lombardia, per esempio, dieci giorni fa è stata emessa una circolare che prevede l’invio di pazienti Covid post acuti in Rsa e chi dirige la macchina non ha nulla da obiettare. Neppure nel giorno, mercoledì 18 marzo, in cui è venuto fuori che in provincia di Brescia, in una struttura per anziani, si è consumata una vera e propria strage di ospiti che le autorità sanitarie attribuiscono a un “contagio portato dai parenti” dei medesimi. Questo nonostante i parenti non entrino da settimane nelle Rsa lombarde, come in molte altre strutture nazionali.

RISTERILIZZIAMO DISPOSITIVI MONOUSO – La vicenda ha riacceso le proteste dei sindacati della funzione pubblica delle principali sigle circa la mancanza di dispositivi di protezione nelle Rsa come negli ospedali. “Abbiamo personale che, quando ce li ha, risterilizza dispositivi monouso, quindi si può immaginare il margine di protezione. Visto il numero crescente di contagi tra i sanitari – racconta Vanoli – stiamo chiedendo alla Regione di fare come fa il Veneto e come sta pensando di fare il Piemonte: fare i tamponi al personale sanitario e delle Rsa. Sono i primi che si stanno ammalando e trasmettono il virus sia a casa, sia in struttura/ospedale, vanificando tutti gli sforzi”.

LA DELIBERA DELLA LOMBARDIA-Intanto dall’assessorato della sanità di Giulio Gallera ricordano che la deliberazione della Giunta regionale XI/2906 dell’8 marzo 2020, individua le Rsa come strutture adatte ad accogliere i pazienti COVID post acuti per cure extra ospedaliere e “assistenza a bassa intensità”, solo se hanno padiglioni e strutture organizzative (personale) separate dal resto della Residenza, hanno medici (tra geriatri, cardiologi e pneumologi) e infermieri 24 ore su 24, possono fare esami di laboratorio, indagini radiografiche e praticare ossigenoterapia. In queste strutture è stato predisposto il blocco del 50% del turn over. Cioè ogni due posti che si liberano uno viene tenuto per i pazienti COVID.

Nella giornata di mercoledì, quando il tema è diventato scottante, ilfattoquotidiano.it ha cercato senza successo l’assessore Gallera per un confronto in merito. La risposta è poi arrivata indirettamente nel corso del punto stampa quotidiano, quando l’assessore ha dichiarato che “sono girate notizie un po’ allarmate da parte di alcuni gestori di Rsa e da un po’ di cittadini”, precisando che pazienti positivi al Coronavirus potranno andare solo nelle Rsa che hanno “piani separati, padiglioni separati o strutture indipendenti; con personale dedicato per pazienti stabilizzati che sono in via di guarigione o che non hanno particolari problemi”. Per Gallera la strategia “sta consentendo al sistema di reggere. Non andiamo a creare un problema in un ecosistema fragile, ma a recuperare spazi dove è possibile farlo in totale sicurezza”. Più precisamente, ha dichiarato ancora l’assessore, “nel 90% dei casi i pazienti trasferiti sono andati in strutture sanitarie private e ospedaliere. In alcuni casi nelle RSA, ma solo laddove vi siano strutture con padiglioni separati dagli altri e con personale dedicato solo a questo. Non mettiamo i malati di Covid insieme agli anziani”.

LE RSA SONO SOTTOSTAFFATE PER DEFINIZIONE – Piani separati a parte, i criteri sulla carta potrebbero anche sembrare ragionevoli, ma identificano strutture molto difficili da trovare. Sia per la separazione fisica degli spazi, sia e soprattutto per la necessità di avere una doppia struttura di personale senza contatti, quando i criteri di accreditamento delle Rsa definiti dalle stesse regioni prevedono un rapporto operatore/paziente, medico/paziente e infermiere/paziente già molto al di sotto del fabbisogno in condizioni normali. In altre parole, queste strutture sono fortemente sotto stress in condizioni normali in quanto, in virtù di calcoli matematici che non hanno attinenza con la realtà, vengono autorizzate ad operare con pochissimo personale che si deve far carico di un’enorme mole di lavoro. Pensare di dimezzarlo è impossibile. Difficile quindi capire quali possano mai essere le strutture che sono state già utilizzate.

PENSIONATI: “FOLLIA” – Precauzioni o meno, si tratta di una “scelta folle” secondo SPI Cgil, FNP Cisl UILP Uil, i sindacati dei pensionati della Lombardia, fortemente preoccupati e contrari alla decisione, visto che le strutture dovrebbero essere le più protette dal contagio, dal momento che ospitano i soggetti che più facilmente sono vittima del virus. “L’eventuale diffusione incontrollata del virus all’interno di queste strutture potrebbe compromettere seriamente la salute “già precaria” di molti ospiti, nonché mettere a grave rischio la salute del personale che presta propria assistenza al quale vanno garantiti tutti i dispositivi di tutela individuale previsti”, si legge in una nota. Che ricorda come recenti ordinanze abbano quasi azzerato le visite e i contatti con i parenti nelle Rsa proprio per tutelare gli ospiti al meglio.

Eppure “da giorni si rincorrono notizie preoccupanti, rilanciate anche da stampa e da TV nazionali e locali, di focolai che si stanno sviluppando nelle case di riposo”. Così i sindacati dei pensionati chiedono alla Regione “un minimo di coerenza”, invitando la giunta Fontana a fare dietro front e a prendere in considerazione solo alternative come “ospedali da campo e dismessi da poco, caserme in disuso, padiglioni di fiere, alberghi vuoti”, oppure Rsa ma svuotate da ospiti.

I GESTORI: “NON E’ LA SOLUZIONE” – E i gestori delle strutture cosa pensano di una situazione che potrebbe metterli in grande difficoltà con dipendenti e ospiti? “Ci stiamo adeguando alle disposizioni regionali e nazionali – spiegano dal gruppo Kos-Anni Azzurri – ma riteniamo che portare i pazienti Covid nelle Rsa non sia la soluzione migliore”, è l’asciutto commento.

LA LIGURIA: “NON SE NE PARLA” – In altre Regioni, l’ipotesi era inizialmente circolata per poi tramontare senza se e senza ma. Per esempio in Liguria, dove la popolazione è più anziana della media nazionale, l’azienda sanitaria regionale, Alisa, smentisce vigorosamente che siano anche solo allo studio ipotesi di destinare letti di Rsa a pazienti COVID. Anzi, l’indicazione è di limitare ai soli casi urgenti e improrogabili i normali accessi di nuovi pazienti e di limitare alle urgenze reali anche l’invio di ospiti in pronto soccorso.

Al momento i casi di anziani ricoverati in Rsa liguri positivi al tampone sono in totale 20, sei dei quali a Genova e 8 in provincia di Savona (dato al 18 marzo). “Sono state date precise indicazioni riguardo ai protocolli da seguire”, spiegano da Alisa, precisando che “i nuovi ingressi nelle strutture residenziali sono limitati a casi urgenti e improcrastinabili che devono comunque obbligatoriamente essere preceduti da un preventivo triage a cura del medico della ASL o della struttura. Le dimissioni sono previste se non ci sono situazioni di rischio”.

E in Rsa sono ammessi pazienti post acuti “solo in assenza di storia clinica COVID correlata”. Quanto ai dpi, “tutte le strutture devono attenersi alle indicazioni del Ministero Salute e Istituto Superiore Sanità”, secondo i quali dove non è possibile mantenere la distanza di sicurezza di 1 metro, è obbligatorio indossare la mascherina. Situazione inevitabile quando si ha a che fare con persone non autosufficienti.

LA STRATEGIA DI TRENTO – Più a nord, in Provincia di Trento ai primi focolai di Coronavirus nelle Rsa di Pergine Valsugana, hanno chiuso le porte e preso contromisure immediate. Niente visite dall’esterno, basta nuovi ricoveri, niente dimissioni. Un breve training in loco al personale della struttura che, munito di dispositivi di protezione, ha gestito all’interno l’emergenza fino dove ha potuto munito di dispositivi di protezione. Regione che vai, insomma, usanza che trovi. Vale anche ai tempi del coronavirus e perfino a proposito della tutela degli anziani che, come hanno capito perfino i bambini che in queste settimane sono stati tenuti alla larga dai nonni.

IL RITORNO DELLE MASCHERINE DI STOFFA – D’altronde una Rsa in questo momento è una polveriera. “Ci sono coordinatrici – raccontava nei giornis corsi all’Ansa Laura Olivi della funzione pubblica Cisl – che non volevano gli operatori con mascherina per non spaventare gli ospiti”. Adesso i presidi stanno arrivando, ma non dovunque e non per tutti. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha annunciato giovedì mattina che il comune sta “mandando mascherine e camici” nelle Rsa.

Intanto i medici di una struttura hanno contattato la ditta che la serve da anni e l’hanno convinta a fornite loro delle mascherine di tessuto, cucite. “Quaranta anni fa in chirurgia si faceva così, poi basta lavarle a 90 gradi con dei normali prodotti – hanno spiegato i medici all’Ansa – Non avere mascherine avrebbe significato ridurre la vicinanza con i nostri pazienti e farlo avrebbe voluto dire rischiare la loro vita, perché sono fragilissimi, hanno bisogno di cure costanti e a strettissimo contatto”.

Sul tema è tornato a raccomandarsi il presidente dell’Istituto Superio della Sanità, Silvio Brusaferro, che nel corso del punto stampa di mercoledì 18 marzo ha speso parole inequivocabili sulla necessità di proteggere i cittadini più fragili e di tenere gli istituzionalizzati adeguatamente protetti e lontani da contatti sociali, dal momento che la gestione di un contagio in una struttura sarebbe drammatica. Come dimostrano i casi degli ultimi giorni.