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di Andreina Fidanza
Ci hanno semplicemente chiesto di rimanere a casa: per il bene del Paese, per proteggere noi stessi, per rispettare chi come Elisa, infermiera reparto Malattie Infettive dell’Ospedale di Sanremo, spende ogni suo giorno per trasmettere un po’ di calore a chi forse non ce la farà.
“Ricordo ancora quando sentii parlare per la prima volta di questo ‘nuovo virus’: al telegiornale passavano le immagini di persone asiatiche con la mascherina. Queste cose sembrano così lontane da noi. Era gennaio.
Verso metà febbraio andai in ferie, portai i bambini sulla neve per trascorrere un weekend spensierato prima di rientrare all’asilo (loro) e di godermi un po’ di riposo (io). Durante la settimana di ferie fui chiamata a partecipare a due riunioni: ‘Siamo solo all’inizio, sembra un’influenza ma molto contagiosa. Il picco arriverà molto più avanti’. E istruzioni su come vestirsi, sull’uso dei Dpi, come rimuoverli in sicurezza. Ero confusa.
Tornai a Sanremo il giorno prima e mai avrei mai pensato di trovare una realtà totalmente diversa da quella che avevo lasciato. La sera prima pensavo a cosa mi sarei dovuta aspettare. Non ne avevo la minima idea. Mio figlio Michele, di 5 anni, mi chiese: ‘Mamma, cosa farai domani in ospedale?’. Non seppi cosa rispondere.
Quel lunedì mattina trovai il mio reparto ‘spaccato’ in due: metà era occupato dai nostri pazienti abituali, metà era riservato ai pazienti ‘sospetto Covid’. Nel giro di quattro giorni avevamo solo pazienti Covid. La nostra routine di lavoro era stata completamente stravolta. Il tempo impiegato solitamente per la somministrazione della terapia si era triplicato. Brancolavamo nel buio, ma il nostro obiettivo era sempre quello: arrivare a fino turno con la certezza di aver fatto tutto nel migliore dei modi.
Ciò che prima era ‘normale’ si era completamente deformato. Adesso la regola generale, per far sì che il minor numero di noi debba ‘vestirsi’ per entrare nelle stanze, è fare tutto quello che si può quando si è dentro: rilevazione parametri vitali, prelievi ematici (venosi e arteriosi), somministrazione terapia, rifacimento letti, somministrazione del pasto. Tutto da sola, cercando di rimanere concentrata nonostante il sudore, gli occhiali appannati, i doppi guanti, l’elastico della mascherina che sembra penetrarti il cranio, la carenza di ossigeno.
Perché con le FFP3 ti manca l’aria, continui a respirare la tua anidride carbonica e ti gira la testa. Ma nonostante ciò provi a rendere meno drammatico il tempo di chi, con il terrore dipinto sul volto, ti fa domande alle quali non sai rispondere.
Ma sdrammatizzi, perché se tu sei stanco e sudato loro si son ritrovati da un giorno all’altro chiusi in una stanza, con l’ordine di non uscire, di non ricevere visite. Questo è per me uno degli aspetti peggiori: entrare nelle camere esibendo freddezza, distacco, un disagio che si scontra con la voglia di trasmettere un po’ di calore a chi forse non ce la farà.
Poi arriva il momento della svestizione, e finalmente respiri. La tua divisa gronda di sudore, il mal di testa è insopportabile, le mani sanguinano. Ma riparti, col collega che ti ‘lava’ con l’ipoclorito. Ti rivesti, per entrare nella camera successiva. Ti lavi le mani 4-5 volte prima di cambiarti, 2-3 volte prima di uscire dallo spogliatoio, poi finalmente timbri e vedi la luce del sole, consapevole che il giorno dopo sarai di nuovo lì.
Ma ora basta, stop, devi staccare. Vai a casa, ti fai una doccia bollente prima di abbracciare i tuoi bambini, la tua vita. Un bacio sulla testa, perché non si sa mai, pur sicura di aver adottato tutte le precauzioni necessarie per proteggere te stessa e chi ami. Ma rimani con mille dubbi. Perché se è vero che siamo sanitari, preparatissimi sull’uso dei Dpi e sulla trasmissione dei patogeni, la verità è che questo virus fa paura e in fondo molti di noi non ci hanno ancora capito nulla”.
Elisa Ponzo