Il triste sorpasso di oggi (l’Italia totalizza 3.405 morti da Covid-19 contro le 3.245 morti dichiarate in tutta la Cina) impone una domanda: perché così tanti morti in Italia rispetto alla Cina, alla Germania o alla Corea del Sud? I morti in Germania sono stati 43 su 14mila e 481 positivi. In Corea del Sud i morti sono sono 91 su 8mila e 565 casi e in Cina i morti sono 3.245, poco meno dell’Italia ma su 81mila 155 casi.
C’è una risposta ‘ottimistica‘ e altre che lo sono molto meno a questa domanda.
La prima risposta è che la ragione risiede nel diverso modo di rilevazione delle morti. Cioè in Italia cataloghiamo come morti da Covid-19 anche i cosiddetti ‘morti con il coronavirus’ ma che avevano altre patologie. Mentre in Cina, Germania e Corea del Sud, è il corollario, i medici non rileverebbero e non inserirebbero quel tipo di morti ‘non per ma con coronavirus’ nelle statistiche.
Purtroppo per noi, quando questa domanda è stata posta ai funzionari dell’Oms che si stanno occupando della pandemia a livello europeo, la risposta non è stata questa. Durante la conferenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 17 marzo scorso a Copenaghen (alla quale Il Fatto ha partecipato on-line, di seguito il video integrale) la domanda è stata posta da Bloomberg. La risposta che potrete ascoltare (minuto 28 circa) è di Richard Pebody, capo del team di intervento sulle emergenze infettive in Europa dell’Oms. Pebody premette che non c’è una risposta certa a questa domanda e conclude che bisogna studiare ancora il tema però nel mezzo fa delle ipotesi.
A questo punto potremmo dire, va bene, aspettiamo la fine degli studi. Purtroppo non stiamo parlando di un tema di ricerca astratta. La discussione sulle ragioni della differenza tra Italia e Germania non è una speculazione inutile perché dalle conclusioni di questa analisi derivano istruzioni immediate e impellenti per chi deve pensare i piani d’azione per combattere non domani ma oggi il virus.
Quando gli chiedono se il tasso di mortalità è così alto in Italia per via del differente sistema ospedaliero, per ragioni demografiche (più anziani) o per il differente modo con il quale i paesi classificano i pazienti, Richard Pebody, Team leader europeo per la gestione dell’emergenze infettive dell’Oms risponde: “Gran bella domanda. Non abbiamo una risposta certa. Probabilmente è una combinazione dei fattori che lei sottolinea”.
Pebody però non si ferma qui. E aggiunge che la ragione potrebbe essere proprio il diverso modo di conteggiare i malati (non i morti) nei diversi paesi. Secondo Pebody alcuni paesi fanno i test ai malati solo quando presentano sintomi acuti mentre altri li fanno anche a chi presenta solo sintomi lievi. Il funzionario dell’Oms non la nomina ma si riferisce all’Italia.
Il punto è che finora ci eravamo cullati nella certezza che l’Italia avesse fatto più test degli altri paesi. Ciò è vero in termini assoluti rispetto a paesi come la Germania ma non vale nemmeno in termini assoluti verso la Corea. Con 51 milioni di abitanti, meno dell’Italia quindi, Seoul ha fatto quasi il doppio dei test. La ‘pesca’ a strascico dei coreani ha scoperto poco più di 8mila casi. La pesca più mirata degli italiani (solo sui malati gravi ultimamente) ha prodotto quasi cinque volte più casi. Allora c’è da domandarsi quanti ‘pesci’ ci sono da pescare nel nostro mare. Cioè quanti casi avremmo trovato in Italia e soprattutto nel nord del paese se avessimo applicato anche noi la tecnica di caccia estensiva al virus dei coreani.
In altri termini una possibile spiegazione della differenza Italia-Corea sembra essere non tanto il numeratore (i morti con altre patologie rilevati come da Covid-19 in Italia e non in altri paesi) ma il denominatore (cioè i malati che in altri paesi sono ‘ricercati’ con più aggressività dalle autorità anche se con sintomi lievi) ergo la situazione dell’Italia è peggiore di quel che sembra ed è fotografata non solo dai malati ‘rilevati’ ma anche dalle morti effettivamente avvenute. Cioè la ‘fotografia’ da incubo con più di 40mila malati, in questa logica, sarebbe persino ottimistica. Mentre sarebbe più fedele la diagnosi del malato Italia fatta partendo dai certificati di morte.
Questa tesi risulta confermata da un dato italiano: la Regione Veneto che ha cercato di fare molti test con un approccio più sudcoreano, ha un tasso di mortalità più basso della Lombardia. Questo stesso ragionamento fatto sopra nel paragone Corea-Italia o Veneto-Lombardia non trova immediato riscontro per la Germania che ha fatto meno test di noi.
In questo caso si potrebbe spiegare il tasso di mortalità diverso con il differente ritmo dei contagi, più rapidi delle morti, che invece seguono un’onda più lunga, tanto che in Cina, i contagi interni sono ormai pari a zeri ma ogni giorno si registrano ancora diverse morti. E l’impennata dei morti in Germania delle ultime ore andrebbe in questo senso. Però la risposta almeno in parte potrebbe risiedere nei diversi livelli della sanità italiana e tedesca, che almeno per il numero attuale dei malati sta rispondendo meglio.
Tornando alle possibili spiegazioni alternative alla prima dei test, nella sua risposta a Bloomberg, Richard Pebody, dopo avere esaminato il tema dell’atteggiamento diverso in fase di ‘caccia alla malattia’, prosegue dicendo che, qualora invece il rapporto tra malati e morti non fosse falsato da questa discrasia di rilevazione dei primi, resterebbero alcune variabili da considerare: le differenze demografiche tra i paesi e i differenti livelli di assistenza.
La dottoressa Dorit Nitzan, coordinatrice delle emergenze in Europa, è sembrata propendere per la tesi demografica più che per la tesi del diverso (nel senso di peggiore) livello della sanità italiana rispetto a Corea o Germania. Nella medesima conferenza stampa infatti Nitzan ha invitato alla cautela nel trarre conclusioni sul tasso di mortalità e ha fatto notare che i coreani hanno lavorato bene ma sono stati aiutati rispetto all’Italia dalla demografia: le persone malate, poi guarite, erano spesso donne (che reagiscono meglio al virus) e giovani.
La risposta complessa alla domanda sull’elevato tasso di mortalità italiano può dunque essere così sintetizzata: certamente noi italiani siamo tra i più anziani al mondo (secondi dopo i giapponesi) e come è noto gran parte delle vittime del Coronavirus ha più di 70 anni. Però ci sono altri due possibili fattori che potrebbero spiegare almeno una parte della differenza tra l’Italia e gli altri paesi: non facciamo abbastanza test per avere una fotografia della realtà nitida come quella scattata alla popolazione coreana. E forse, quando Richard Pebody accenna al diverso livello dei servizi sanitari, potrebbe anche alludere all’incapacità del sistema sanitario nazionale, sfiancato dai tagli e dalle privatizzazioni, di affrontare una simile emergenza come può fare la Germania.
L’età media del paese non è colpa di nessuno e non è una variabile sulla quale possiamo incidere. Sui livelli di assistenza possiamo impegnarci di più ma nei limiti delle risorse disponibili. Sui test invece possiamo e dobbiamo decisamente fare di più.