“Ogni tanto facciamo qualche battuta per andare avanti, ma sappiamo che, se dovesse capitare a noi, avremmo il destino segnato”. Teresa Siclari è originaria di Lonate Ceppino (Varese) e dei suoi 43 anni, 26 ne ha passati tra reparti di ospedale e centri per dialisi. Lei è solo una delle 50mila persone che in questo momento sono sottoposte a dialisi e quindi più vulnerabili di fronte a un virus sempre più letale tra le persone già affette da altre patologie. Ma spesso questi pazienti sono poco tutelati.
I dializzati devono recarsi per i trattamenti nei centri dei propri Comuni per tre volte a settimana, con una media di circa quattro ore a seduta, ma le Regioni d’Italia, dopo lo scoppio dell’emergenza coronavirus, non hanno dei protocolli che possano proteggere queste persone dal contagio. Per questo nei giorni scorsi il presidente di Aned (Associazione Nazionale Emodializzati), Giuseppe Vanacore, ha scritto una lettera al ministro della Salute, Roberto Speranza, per chiedergli tre accorgimenti: invitare le regioni a redigere piani di emergenza, istituire triage nei centri di trattamento che possano prevedere anche l’isolamento dei casi sospetti, ma soprattutto un centro per ogni provincia per accogliere i dializzati positivi. “Se l’epidemia dovesse esplodere anche tra le persone sottoposte a dialisi sarebbe una tragedia” dice a Ilfattoquotidiano.it Vanacore.
Tra i deceduti, uno ogni sei era in dialisi – Al momento, di dati ufficiali sul numero dei contagiati da Covid-19 tra i sottoposti a dialisi non ce ne sono: secondo quanto risulta al Fatto.it, però, si stima che ci sia un dializzato ogni 200 casi positivi. Secondo uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità del 17 marzo e relativo alle caratteristiche dei deceduti per il Covid-19, basato su un campione di 355 persone, ben 64 soffrivano già di insufficienza renale cronica. Uno ogni sei.
Numeri che secondo il Presidente dell’Aned Vanacore sono stimati “al ribasso”. Per questo chiede più sicurezza: “I pazienti dializzano in locali dove ci sono molti letti e se una persona è positiva contagia tutti gli altri, compreso il personale sanitario – continua Vanacore – Per questo chiediamo alle Regioni, in primis alla Lombardia, di individuare dei centri appositi per i positivi”. Al momento la Società Italiana di Nefrologia (Sin) ha individuato delle linee guida per tutelare i pazienti ma le Regioni non hanno fatto seguire alcun atto concreto.
“Restate a casa, fatelo per noi” – Negli ultimi giorni le chat dei pazienti sottoposti a dialisi sono piene di notizie dell’ultim’ora: il primo morto di 62 anni a Castiglione d’Adda a fine febbraio, il tampone positivo di un valdostano e giovedì scorso la morte della pisana, Graziella Gorini, che, secondo il figlio, sarebbe stata contagiata proprio in un centro dialisi. “Sì, siamo angosciati – continua Teresa Siclari – Non possiamo stare in quarantena perché tre volte a settimana dobbiamo andare nei centri e nel mio facciamo il trattamento in stanze da sei-dieci letti tutti insieme. Immagini l’ansia che proviamo: ognuno arriva da un posto diverso e per quanto io possa prendere tutte le precauzioni del caso, chi lo sa cosa fanno gli altri a cui stiamo vicini? Chi frequenta, se va al supermercato, se si mette la mascherina”. Per non parlare del trasporto: “Io sono fortunata perché mi accompagna mio marito – continua – ma molte persone non sono autosufficienti e devono essere accompagnate con le ambulanze della croce rossa, ovviamente aumentando il rischio di contagio”.
Una situazione che non vale solo per la Lombardia. Luisa Annunziata, 59 anni da Ottaviano (Napoli), ha subito un trapianto di reni sei anni fa e da presidente di Aned Campania riceve ogni giorno le lettere dei pazienti in preda al panico: “Le nostre difese immunitarie sono molto basse e dobbiamo evitare in ogni modo le infezioni. Significa non andare al supermercato o nei centri affollati – racconta – però dobbiamo per forza uscire di casa per andare nei centri di trattamento, sono il nostro salvavita senza il quale si muore”. Per questo servono le precauzioni: mascherine, letti più distanziati e centri appositi per i pazienti positivi. Per il resto, l’imperativo è sempre lo stesso: “Restate a casa, fatelo per noi” conclude Annunziata.