C’è chi l’ha amato per i suoi straordinari reportage dal Tour de France, chi l’ha apprezzato per il suo approccio competente e mai saccente al calcio giocato, chi l’ha adorato per la sua rubrica enogastronomica sul Venerdì di Repubblica. Gianni Mura, morto a Senigallia la scorsa notte per un infarto a 74 anni, è stata una di quelle firme del giornalismo italiano che con discrezione e sostanza, con raffinata sintassi e illuminante piacere descrittivo, ha fatto la storia del giornalismo italiano. In questa epoca di scrittura tritatutto, ipertrofica e multitasking, la lentezza ragionata, i toni mai urlati di Mura sembrano un’oasi rifugio impagabile.

Perché il giornalista milanese, maturità classica, gavetta alla Gazzetta dello Sport negli anni sessanta, poi dal 1976 firma insostituibile di Repubblica, era come una rotativa indefessa, passionale e pantagruelica dei suoi interessi culturali. Gianni Mura era un brano di Paolo Conte, un corposo vino delle Langhe, uno di quegli uomini di una volta che piegavano il capo un po’ di lato e si mettevano le dita sulla fronte per sfiorarsi leggermente mentre parlavano e intanto facevano sbucare da lontano un pensiero gentile e preciso.

Chissà, così da lontano, senza alcuna frequentazione personale, ma da semplice lettore, Mura mi era sempre sembrato più legato al ciclismo che al calcio. I Cattivi Pensieri sì, erano un passo imperdibile del post Serie A, quando ancora l’editoriale del lunedì significava una riflessione organica sulle partite della domenica, ma quelle cronache gioviali delle strade di Francia a ridosso della Grande Boucle erano pura letteratura tra Mario Soldati e Georges Simenon.

Mura seguiva la corsa ciclistica, ma il patto implicito con il suo lettore era quello di farsi trasportare dove voleva lui. In un bistrot trovato per caso in qualche viottolo lontano dal percorso ufficiale. Davanti ad un crocicchio mai visto e immaginato. “Seduto in cima a un paracarro e sto pensando agli affari miei, tra una moto e l’altra c’è un silenzio che descriverti non saprei”. Mura viveva il Tour de France come Alice nel Paese delle Meraviglie. E proprio questa sua curiosità verso un mondo fieramente antico, quella semplicità identitaria da provincia francese, che richiamava il suo moto dell’anima. Certo San Siro, l’Olimpico, Wembley e il Bernabeu, eppure Mura l’abbiamo sempre visto a “consumare i suoi sandali” dietro ai tubolari di Anquetil e Indurian.

Quando inventò quel termine garbato e profondo, quel Pantadattilo, riferito a Marco Pantani mentre vince all’Alpe d’Huez. Mura era innamorato del ciclismo, quello di una volta, quello epico, come era stato folgorato dall’arrivo e dal rapido affermarsi di Pantani. Quando Marco morì, all’improvviso, in quella stanza d’albergo, Mura aprì così: “Pantadattilo ha chiuso le ali”. Quattro parole di una intensità mostruosa e allo stesso tempo di una semplicità lessicale da lacrimone immediato. Perché in più, in meglio, in positivo rispetto al suo maestro Gianni Brera, Mura andava oltre la durezza di un’invenzione alla “abatino” (come Brera definì Rivera), perché sapeva iniettare una lontana appartenenza di specie e di gruppo senza sbandierare retorica e invenzioni iperboliche.

Scrisse anche un libro, tra i tanti, intitolato Giallo su giallo, vagamente ispirato al più naif Giro d’Italia con delitto di Ormezzano che, possiamo dirlo, perché tanto adoravamo Gianni, quanto non ci piacque. Perché la misura di Mura era la paginata intera su Repubblica del Tour, un tremila piani su e giù tra Tourmalet, Champes-Èlysées e paesini bretoni. Quando la tappa non aveva troppo charme, oltretutto, si rischiava il razionamento, mezza pagina o una colonnina laterale, e si tiravano sacrosante bestemmie. Misura che invece variava nel suo Mangia e Bevi sul Venerdì in compagnia della moglie Paola. Duecento metri piani in cui la cucina della ritrovata trattoria sulla provinciale, quando ancora gli chef stellati non erano diventate star della tv, veniva spiegata e fatta assaggiare in poche righe alle papille gustative del lettore, come un’ode profumata e deliziata all’abbuffo.

Chiudiamolo così, questo ricordo di Mura, un pezzo di storia che se ne va senza sostituito alcuno nel giornalismo italiano, quando almeno vent’anni fa, quando ancora nessuno scriveva di uova cotte a temperature differenti o di bollito a forma di skyline newyorchese. Leggemmo una puntata della rubrica di Gianni con un amico. Parlava di una trattoria appena fuori Brescia. Un posto dove, e Mura era stato sincero profeta, ti facevano arrivare decine di antipasti casalinghi senza mai arrivare al primo, figuriamoci al secondo o al dolce. Arrivammo là, da Bologna, in un nuvoloso giorno feriale. Trattoria che era mezza chiusa. Praticamente soli entro ad un salone anni settanta. Sembrava un film di Claude Sautet. Il proprietario ci offrì libagioni come nell’antica Roma. I piatti di antipasti non finivano mai. Una grande abbuffata ferreriana che Mura ci aveva già descritto nei dettagli come il più puntiglioso dei blogger attuali. Non sappiamo se quella trattoria esiste ancora. L’articolo ritagliato di Gianni Mura sì.

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