La solitudine dei tempi recenti: è morto in questi giorni il teologo padre Nicola Masi. Mio zio. E’ morto nella casa dei Missionari Saveriani di Parma, dove era tornato a vivere da qualche tempo. Una vita lunga, la sua, tutta dedicata a quanto aveva scelto di fare da giovane: il missionario.
Nic era appena adolescente quando decise di fare il missionario. Lasciò la famiglia che risiedeva a Priverno, in provincia di Latina, e iniziò il suo lungo viaggio in Italia e nel mondo. Si laureò in teologia e poi in diritto canonico all’università Gregoriana.
Mentre era a Roma a studiare, alcuni ragazzi scout del quartiere Parioli gli chiesero se avesse avuto piacere di diventare assistente del loro gruppo: “Roma28”. Accettò. I ragazzi di un tempo e il loro padre spirituale sono rimasti sempre molto legati tra loro.
Finiti gli studi a padre Masi venne affidato l’incarico di “ministro” degli esteri. Un compito molto importante, perché si sarebbe dovuto occupare di tutti i missionari sparsi per il mondo. Cominciarono i suoi continui viaggi. In Europa prima e poi negli altri continenti. Essendoci stato il Concilio Ecumenico di Giovanni XXIII lui ebbe il compito di informare dei cambiamenti della Chiesa i tanti confratelli che vivevano in realtà sperdute. All’epoca non c’erano certo i social o le mail. Bisognava andare di persona a fare i corsi di aggiornamento. Iniziò dal Bangladesh, quindi Indonesia, India, Congo, Burundi, Messico, Brasile, Sierra Leone etc.
Dopo qualche anno arrivò anche per lui il tanto atteso momento della vera “missione”. Partì per Belem, Amazzonia. Lui conosceva già molte lingue. Parlava benissimo l’inglese, il tedesco e lo spagnolo. Era arrivato il momento di imparare il portoghese. Non ci mise molto. “Ma ho dovuto imparare ben presto anche un’altra lingua: quella della vita”, era solito dire.
A Belem si sistemò in una casetta della periferia e riprese anche lì ad insegnare teologia morale e diritto canonico all’università. Un giorno, allontanandosi dal centro e percorrendo un viottolo… arrivò all’”inferno”. Di fronte a sé un’intera palude di palafitte, tantissima gente ammucchiata e un mare di scoli d’acqua putrida e fango. Uno spettacolo desolante. Le case erano unite una all’altra da tavole o tronchi d’albero scivolosi e pericolanti. Era la favela di Belem, abitata da 30mila persone. Si fermò a parlare con loro e quando stava per andare via un giovane gli chiese “perché non rimani con noi?”.
Lui ammutolì. Era confuso. Poi però pensando a Cristo che si era fatto povero tra i poveri, accettò. Con pochi soldi comprò una baracca da una signora che voleva scappare da lì e ne fece la sua residenza. E come tutti dormì per tanti anni su un’amaca appesa al soffitto.
Un giorno sentì urlare una donna. Era la mamma di un bambino di un anno e mezzo che per seguirla era affogato nella melma. Nic decise che era arrivato il momento di fare qualcosa per quella gente. A capo di un gruppo di persone si recò dal sindaco, che li ascoltò, promettendo che il giorno dopo sarebbe andato a verificare di persona. Fu di parola, tanto che inviò immediatamente una squadra di carpentieri a rifare tutti i ponticelli di legno. Fu l’inizio delle conquiste. Poco dopo riuscirono ad ottenere anche la luce e l’acqua potabile. Una vera bonifica della palude.
Zio Nic rimase lì 18 anni. In tanti lo aiutarono con aiuti in denaro dall’Italia, dalla Germania e dai tanti altri paesi dove aveva instaurato nel tempo rapporti di amicizia e stima. I suoi scout pariolini diedero vita a una Onlus. Con l’aiuto loro e di altri riuscì a far costruire tre centri comunitari, una chiesa e un centro per corsi professionali, dove in tanti hanno appreso un mestiere. Ed è stata la salvezza per tanti giovani, ripeteva sempre.
In Brasile in quegli anni arrivò la dittatura. E con la dittatura anche la vita dei preti diventò difficile. Venivano accusati di tutto per inezie e condannati ad anni di prigione. Un giorno tre preti e alcuni contadini vennero condannati a 18 anni di carcere: fu la scintilla. Migliaia di manifestanti arrivarono da ogni dove. I militari li attaccarono. Un gruppo, tra cui lui, si rifugiarono nella vicina chiesa. I militari li chiusero dentro e tagliarono le tubature dell’acqua. Non fu certo quella la prima volta che padre Nic rischiò la vita.
Nel 1994 venne spostato ad Abaetetuba, sempre in Amazzonia. Per lui si trattava di ricominciare tutto daccapo. Nessuno lo abbandonò e con gli aiuti di tutti partirono anche qui i progetti sociali. E infatti potè realizzare un centro medico, tre scuole elementari e medie, un centro professionale, un centro per la difesa e la promozione della donna, un centro per il recupero dei giovani drogati e decine di altri centri, tra cui quello per i “meninos de rua”, i famosi bambini di strada.
Zio Nic ogni tanto tornava in Italia. Una volta era sul lago Maggiore a festeggiare i 40 anni di sacerdozio di un carissimo amico missionario. A pranzo si ritrovò seduto vicino a un signore alto e distinto. Era un famoso medico di Milano. Iniziarono a parlare. Il medico era molto curioso di conoscere cosa stesse facendo in Amazzonia. Nic gli descrisse tutte le attività che era riuscito a realizzare. Lui non soddisfatto si informò anche di cosa avrebbe voluto fare.
Zio Nic, che in questo periodo ha scritto un bellissimo libro dal titolo Ho prestato i miei piedi a Gesù, ha attraversato tante difficoltà, tante incertezze e tante avversità nei mondi poco sviluppati. Mai però avremmo pensato che se ne sarebbe andato via così. E in questo modo. Ciao zio Nic.