Venerdì scorso Ahmed Mansoor, attivista per i diritti umani degli Emirati Arabi Uniti, è entrato nel quarto anno di detenzione in isolamento.

Insignito nel 2015 del premio Martin Ennals per i difensori dei diritti umani, Mansoor è stato per molto tempo collaboratore del Centro per i diritti umani del Golfo e di Human Rights Watch. Per anni è stato sottoposto a spionaggio elettronico.

Arrestato il 20 marzo 2017, il 29 maggio 2018 è stato giudicato colpevole di “offesa allo status e al prestigio degli Emirati Arabi Uniti e dei suoi simboli, compresi i suoi leader”, unicamente in relazione al suo attivismo per i diritti umani anche sui social media.

Mansoor è detenuto nella prigione al-Sadr ad Abu Dhabi, in condizioni drammatiche. Dal suo arresto gli è stato consentito di lasciare la sua piccola cella solo per pochissime visite familiari e una sola volta per respirare aria fresca nel cortile destinato agli esercizi fisici. Per protestare contro questo trattamento, lo scorso anno ha intrapreso due scioperi della fame che hanno compromesso le sue condizioni di salute. La seconda volta l’hanno picchiato duramente.

Nel febbraio di quest’anno oltre 60 organizzazioni della società civile, scrittori e premi Nobel hanno chiesto alle autorità emiratine di rilasciare i difensori dei diritti umani in carcere in occasione dell’Hay Festival in programma quel mese a Dubai. Purtroppo, quella richiesta è rimasta senza risposta.

Gli Emirati Arabi Uniti si definiscono come un “incubatore di tolleranza”. Ma se puniscono una persona in un modo così crudele e per un tempo così lungo solo per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione, quel riferimento alla “tolleranza” fa parte del vocabolario dell’inganno.

Amnesty International continua a chiedere alle autorità emiratine che Mansoor sia scarcerato. Qui l’appello.

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