di Michele Colombo

È passato poco più di una settimana da quando il consiglio dei ministri spagnolo ha dichiarato l’estado de alarma, per la seconda volta da quando è stato introdotto nel 1980 (la prima volta dieci anni fa, in occasione di un improvviso sciopero dei controllori di volo). Questo ha permesso all’esecutivo, di fronte alla diffusione del virus Covid-19 nel paese, di prendere misure straordinarie, non dissimili in linea generale da quelle adottate dall’Italia una settimana prima, sebbene con alcune differenze: il Real decreto approvato il 14 marzo proibisce, per esempio, di praticare sport all’aperto – tema su cui negli ultimi giorni in Italia si è discusso molto – ma permette che vengano celebrate le cerimonie religiose, purché si evitino assembramenti.

Dalla prospettiva di un italiano che sta vivendo a distanza gli effetti dell’epidemia nel proprio paese e che ha osservato da vicino l’evolversi della situazione qui in Spagna, da una città universitaria in Castilla y León, è apparsa sorprendente l’indifferenza con cui verso la fine della prima decade di questo mese, quando in Italia erano state prese su tutto il territorio nazionale le dure misure che ormai conosciamo, è stato percepito il pericolo (la realtà, più precisamente) sia tra chi governa e amministra, sia tra i cittadini.

Solo gli italiani e pochi altri – in seguito al rapido dispiegarsi del contagio dalla zona rossa lombarda in tutto il paese – si aspettavano una simile propagazione del Covid-19 anche nella penisola iberica quando a Madrid si decise di prendere i primi provvedimenti. E così è avvenuto pochi giorni dopo. Ma su questo già è stato detto molto.

All’interno della comunità studentesca dell’Università di Salamanca (il cui rettore già giovedì 12 marzo aveva ordinato la sospensione di ogni attività didattica e la chiusura delle biblioteche), dove convivono giovani provenienti dalle diverse aree del paese e molti stranieri, si è creato un comprensibile spaesamento e si è assistito a una repentina presa di coscienza della gravità della situazione.

Più lenta, invece, è parsa la reazione da parte del resto della cittadinanza ancora il venerdì precedente all’approvazione e diffusione delle misure eccezionali: in pochi – anche tra gli appartenenti alla fascia più esposta al pericolo (e questa è la seconda Comunidad autónoma per numero di anziani in rapporto alla popolazione) – rispettavano per le strade e nei negozi la distanza di sicurezza e le norme che ormai accompagnano, adesso anche qui in Spagna, i pochi minuti che trascorriamo fuori dalle mura domestiche.

Con l’entrata in vigore delle misure eccezionali e dell’obbligo di isolamento nel proprio domicilio, l’aria è cambiata anche qui e, dopo una settimana, la situazione sanitaria del paese è andata aggravandosi fortemente (come già gli esperti avevano previsto). Come dichiarato sabato sera con tutta franchezza dal primo ministro, la Spagna sta affrontando l’emergenza sanitaria più grave dell’ultimo secolo. “La Spagna – ha detto Pedro Sánchez – è uno dei paesi più colpiti d’Europa e del mondo” e ha aggiunto, quasi commosso, “purtroppo i casi diagnosticati e i decessi aumenteranno nei prossimi giorni”. La mattina seguente ha inoltre deciso di prorogare di due settimane l’obbligo di isolamento.

Anche in Spagna, infatti, nell’ultima settimana i casi accertati di contagio sono passati da 7798 (15 marzo) a più di 25mila (22 marzo), con 1.326 vittime (più della metà nella sola regione madrilena). Di fronte alla difficoltà degli ospedali della capitale a sostenere l’emergenza, un ospedale da campo con 5500 posti letto è stato installato nella zona fiera di Madrid e sta accogliendo i primi ricoverati.

Altrove, per il momento, gli ospedali riescono a garantire il trattamento di terapia intensiva a chi ne ha bisogno, ma – come dichiarato da Marta Raurell, presidente della Sociedad Española de Enfermería Intensiva y Unidades Coronarias a El País il 21 marzo – la Catalogna corre il rischio di dover fronteggiare nelle prossime settimane una situazione non meno critica di quella che vediamo oggi a Madrid. Alla scarsità delle macchine – sempre secondo Raurell – occorre aggiungere la difficoltà a reperire personale infermieristico specializzato in grado di gestire la ventilazione meccanica.

La Spagna è dunque pronta ad attraversare il momento più critico dell’emergenza e, per le zone più colpite, c’è da aspettarsi uno scenario simile a quello che in Italia stanno vivendo gli ospedali della Lombardia. Di fronte a una tragedia ormai inevitabile, non ci resta che continuare a sperare che nelle due penisole, italiana e iberica, il senso civico di ognuno prevalga, permettendo di contenere quanto più possibile il contagio e i suoi effetti disastrosi. Una sfida epocale nelle mani di due governi di recente formazione e dalla gestazione complicata.

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