Lo scrittore, protagonista dell'avanguardia Gruppo 63 con Eco e Sanguineti, aveva 90 anni: ha impresso un segno alla letteratura, al giornalismo e alla stessa lingua italiana fino agli ultimi anni. Il capo dello Stato: "Lascia un vuoto insieme a un patrimonio prezioso ed originale"
Sofisticato, elitario, autenticamente snob. Ma anche sgargiante, puntuto, sarcastico. Alberto Arbasino, morto a 90 anni, a quella sua “casalinga di Voghera” non hai mai voluto granché bene. Intellettuale prima di tutto. Scrittore sì, ma romanziere sperimentale tutto formalismo metaletterario e trama ad evaporarsi al sole. Saggista semmai, con quello sguardo sul paese, sul popolo, ancor meglio sulla provincia, e ancora oltre sulla piccola borghesia, più distanziante che critico, più goduriosamente infastidito che seriamente entomologico. Arbasino ha attraversato la rinascita italiana, più sociale e culturale che economica, del Dopoguerra da un trespolo, come Simon del deserto. “Alberto Arbasino ha impresso un segno nella letteratura italiana del Novecento e la sua scomparsa lascia un vuoto, insieme a un patrimonio prezioso e originale” dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella esprimendo vicinanza a familiari, amici e colleghi. “Arbasino è stato uno scrittore di grandi qualità e creatività – sottolinea il capo dello Stato – un romanziere innovatore, un uomo di cultura poliedrico, tra i motori del Gruppo 63. La sensibilità con cui ha guardato la realtà si combinava con il coraggio della sperimentazione. Ha cercato espressione anche nella poesia. E con passione civile è stato giornalista, cercando sempre nella modernità strumenti utili alla narrazione e alla comprensione dei mutamenti, sociali e di costume. L’Italia si è arricchita del suo talento, e la cultura ne farà tesoro”.
Privo di tentazioni terrene, di necessità per riconoscimenti letterari, premi o targhe, semmai bisognoso di stimoli intellettuali, fautore di intarsi come fugaci occhiate là verso il basso, Alberto Arbasino da ragazzino che vide sfilare balilla e adunate fasciste “cariche di ciarpame bruttissimo e scomodissimo”, si tuffò da Voghera dove nacque, e dove si è spento, con grande naturalezza in un milieu universitario e giornalistico tra i più editorialmente fecondi. Medicina, giurisprudenza, infine Scienze Politiche tra Milano e Roma, Arbasino pubblica il primo racconto – Le Piccole Vacanze – nel 1957 con un editor come Italo Calvino. C’è ancora lo slancio giovanile di stupire e la necessità di essere comunque radicato volente o nolente al reale. Poi nel 1960 esce a puntate su Il Mondo, La bella di Lodi. Un incredibile piroettare di locuzioni letterarie, un flusso ininterrotto che sembra una sorta di inganno stilistico, fumo negli occhi, per descrivere il rapporto sentimentale-sessuale tra la possidente lodigiana Roberta e il meccanico Franco, conosciuto in autostrada. Simbolicamente il boom che passa attraverso la cruna dell’ago di una letteratura altrettanto in divenire. Tanto che Arbasino, come farà per altri suoi romanzi, lo allungherà, accorcerà, arricchirà almeno altre tre volte fino all’edizione definitiva più di dieci anni dopo. E ne uscirà anche un film con Stefania Sandrelli, pellicola molto nouvelle vague per stare alle tendenze dell’epoca nei primi anni sessanta. Anche perché il libro ha capitoli brevissimi, anche poche righe, e tutto saetta, luccica, diminutivi a piovere, più “non dico” che dico, periodi con “e” come congiunzione che abbattono le barriere della grammatica. Non a caso Arbasino finirà ad inzupparsi di sperimentalismo da Gruppo ’63.
Fermento d’avanguardia (Eco, Sanguineti, Balestrini) che si stempererà e scioglierà in Fratelli d’Italia, secondo romanzo del nostro, datato 1963, ma continuamente rimodificato fino al 1991 (da 530 pagine a oltre 1300, per dire). Ecco l’Italietta, lo sguardo ampio sullo spazio, sul tempo, sugli altri. Più che la trama, ovvero quel viaggio tra due ragazzi omosessuali tra Italia e Europa, la pochezza, le contraddizioni, gli scivoloni alto/basso di una società osservata con sagace disincanto. Ecco apparire “la signora mia”. Ecco fobie altezzosamente di classe, idiosincrasie personali, esibizioni vane e vanesie altrui. Leggere quell’Arbasino, oltretutto, è clamorosamente divertente. Anche se bisogna mal sopportare geneticamente la plebe. Il realismo di Arbasino è nello sbeffeggio, non nella descrizione. Poi il crack. Nel 1969 esce Super Eliogabalo. Arbasino surrealista. Arbasino autore affermato fa ciò che vuole. Frammenti di un improbabile vita da imperatore. Immaginazione, digressioni che sembrano sfuggire al razionale. Un Gadda ubriaco che incontra Queneau sotto lsd. Arbasino, infine, bruciando ogni tappa, intraprende il salto di specie e diventa un “intellettuale”.
Addirittura un “tuttologo”. Con tutti i meriti del caso. I suoi non romanzi diventano saggi veri e propri. Non c’è scherzo formale, ma sguardo tagliente su società, politica, cultura italiana. Non a caso Arbasino nel 1977 conduce Match, dieci puntate su Rai2 (potete trovarle su RaiPlay ndr) durante le quali lo scrittore modera e allunga il brodo primordiale dell’intellettuale che fa la tv: da un lato tirando quelli che oggi in molti definirebbero “pipponi moralisteggianti” per introdurre un’ospite, una domanda, una riflessione; poi cede la parola ai duellanti che, come nella puntata dove appaiono uno fronte all’altro Mario Monicelli e Nanni Moretti nemici (Moretti era il rivoluzionario, Monicelli il cinema di papà, per capire l’assurdo e l’assunto), se le danno di santa ragione. L’esperimento non si ripete più. Ma Arbasino continua a tratteggiare il contesto Italia con Un paese senza (1980) e altre decine di saggi. Diventa columnist di Repubblica (prima lo era stato del Corriere della Sera) e addirittura viene eletto deputato tra il 1983 e l’87 per il Partito Repubblicano Italiano, da indipendente, in pieno governo Craxi, con relativo appoggio del Pri dentro al pentapartito.
Sono gli “anni più belli”, alla Muccino, per Arbasino, quelli della consacrazione. Quelli dell’editoriale a delucidare crisi a sinistra, sciocchezzuole sociali, bagattelle culturali. Nell’ultimo decennio, oramai anziano pubblica due fulminanti saggi intitolati La vita bassa e Ritratti italiani. Il primo, soprattutto, mostra ancora intatta la classe degli albori. Quella di quando Arbasino inventava “la casalinga di Voghera”, erano gli anni Sessanta-Settanta, felice intuizione di scrittura divenuta ethos universalmente riconosciuto. Lo stereotipo piccolo-borghese per la signora poco scolarizzata e di natura semplice, addirittura umile, che finì addirittura per essere incensata come espressione politicamente corretta, con aura di “rispettabilità”. Chissà quante risate a denti stretti si sarà fatto Arbasino.