Federica Moschiano, autista volontaria su un'ambulanza della Croce d'Oro di Milano, racconta la trincea di sabato, il giorno più nero per la Lombardia: "Un numero di casi virulenti indicibili. E' stata dura. Ma è una missione, non posso farne a meno". La corsa contro il tempo per i dispositivi di protezione individuali: "Siamo costretti a ordinarli online, sperando che arrivino. Lo scorso giovedì ci siamo arrangiati"
“Dalle 7 alle 19, siamo stremati. Dodici ore alla guida dell’ambulanza su e giù per Milano. Un numero di casi virulenti indicibili. Coda di ambulanze negli ospedali. Bare d’acciaio che ti sfilano sotto gli occhi”. Federica Moschiano, che nella vita di tutti giorni organizza eventi sportivi in una grande multinazionale del settore, si è accasciata sul volante, quando sabato sera è finito il suo turno. La foto scattata dal suo amico racchiude quelle 12 ore da volontaria su un’ambulanza della Croce d’Oro. “Si fatica, ma non ne posso fare a meno”. E così, insieme ad altre 200 persone che fanno parte di una delle onlus da più decenni impegnate nell’intervento di emergenza-urgenza nel capoluogo lombardo, Federica combatte nella trincea del soccorso ai pazienti affetti da Covid-19. Ancora prima di medici e degli infermieri degli ospedali della Lombardia: “Siamo il primo contatto per i malati che necessitano di trasporto in una struttura sanitaria. Sabato è stata una giornata senza soste, un intervento dopo l’altro”.
Il giorno più nero per la Lombardia e il più critico per Milano.
La nostra ambulanza ha effettuato il numero massimo possibile di trasporti, sei in 12 ore. Chiamata, arrivo a casa del sospetto caso di coronavirus, su nell’ambulanza, via verso il Policlinico, sosta all’esterno, l’infermiere sale a bordo, misura la temperatura, porta giù il malato e si ricomincia. Solitamente si torna in sede fino alla nuova chiamata invece, da quando è iniziata l’emergenza, come diciamo in gergo, “ci stampano”: durante il rientro risultiamo già liberi e in sede non ci si arriva neanche. Arriva una nuova chiamata dalla centrale e si va. Non abbiamo tregua.
In prima linea da volontaria. Perché?
Fin dal momento in cui ho deciso di impegnarmi, cinque anni fa, l’ho intesa come una missione. Non posso farne a meno, non so stare con le mani in mano. Comprendo la pericolosità e ovviamente avrei potuto dire ‘scusate, per ora mi fermo’, ma è più forte di me. Non è mai facile, ma sabato, per la prima volta, sono tornata a casa con la tachicardia.
Come funziona il vostro intervento?
Ci chiama l’operatore della centrale e ci comunica che c’è un caso sospetto o accertato di coronavirus che richiede il ricovero: “Ha sintomi, vestitevi”. Significa metterci addosso cuffia, camice, doppi guanti, calzari. La situazione dei dispositivi di protezione individuale però è drammatica.
Ovvero?
Non abbiamo sempre tutti gli strumenti. Stiamo cercando di reperirli. È una perenne ricerca sui portali di vendita online. Siamo una onlus e, almeno fino ad ora, abbiamo dovuto provvedere da noi con una crescita esponenziale di utilizzo di materiale, chiaramente usa e getta. Motivo per il quale siamo stati costretti anche ad aprire una raccolta fondi su Gofoundme.
E se mancano i dispositivi?
Ci si arrangia e ci si organizza. Giovedì notte abbiamo siamo realizzato le cuffiettine in maniera artigianale, ricavandole dalle federe che usiamo sulle barelle e legandole con il cerotto. E se il paziente non è dotato di mascherine e guanti, li forniamo noi.
Che casi vi siete trovati davanti?
Non è vero che si ammalano solo gli anziani, soccorriamo anche giovani. Pochi giorni fa abbiamo trasportato in ospedale un ventenne.
Tutti gravi?
Non parliamo sempre di estrema urgenza, andiamo a prendere anche persone che lamentano febbre da giorni e presentano i primi sintomi di dispnea. Spesso si tratta di pazienti ancora in grado di muoversi e respirare in maniera autonoma. Ma parliamo comunque di casi che necessitano certamente di ospedalizzazione, la scrematura avviene sempre con un preciso protocollo telefonico.
Qual è la difficoltà più grande che state incontrando?
Quando ci arriva il codice giallo – e i pazienti con coronavirus raggiungono almeno quel livello – dobbiamo per forza accendere le sirene durante l’intervento. Sono l’autista e ho difficoltà ad azionarle in questi giorni: è l’unico rumore che si sente provenire dalle strade. Mi rendo conto che generano ansia, ma non abbiamo alternative. Riesco a spegnerle solo un attimo prima di arrivare sotto l’abitazione del malato. Almeno così evito che tutti si affaccino da balconi e finestre per seguire il trasbordo.
Quanto potrete andare avanti con questi ritmi?
Spero che sabato sia stato il giorno del picco. Andare avanti così sarebbe davvero dura. Se non siamo arrivati al momento più intenso dell’epidemia, non so come faremo. Per questo dico a tutti: state a casa.
C’è ancora troppa gente nelle strade?
Sì, assolutamente. Non uscire è una forma di rispetto per gli altri. Penso ai runner, tanto criticati in questi giorni. Magari non infettano nessuno né rischiano la propria salute, ma se subiscono un infortunio e hanno bisogno di un’ambulanza finiscono per rallentare il soccorso dei malati di coronavirus. E fosse anche solo un caso, oggi, non possiamo permettercelo.
Twitter: @andtundo