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di Antonio I.
Mia madre ha 84 anni e ha dedicato gran parte della vita a prendersi cura della propria famiglia. Ha sempre chiesto poco per se stessa e donato alla famiglia con disinteresse, a costo di sacrifici personali. Fuori dai cortocircuiti del consumismo e in parte lontana dall’eccesso di tecnologia, è una di quelle donne che appartiene al secolo scorso; o forse, come sarebbe più appropriato dire, una donna che appartiene allo scorso millennio.
Da quando è scoppiata l’emergenza coronavirus, ha seguito l’evolversi della vicenda preoccupata, come tutte le madri, più del benessere degli altri che del proprio. Ha visto l’epidemia espandersi e ha pregato che si fermasse, affrontando la paura con coraggio, aiutata da una fede resiliente. Non teme la propria morte, ma anzi darebbe senza esitazione la propria in cambio della vita di un altro membro della sua famiglia.
Ieri, per la prima volta, era sommessamente più triste. Ha confessato di sentirsi malinconica. Allora ho indagato e ho capito. Era triste perché, dalle immagini che scorrevano in tv, stava comprendendo che, se dovesse morire in queste settimane, morirebbe sola, senza nessuno dei suoi cari vicino a lei, né per darle conforto, né per accogliere un suo ultimo sguardo e neppure per accompagnarla nell’ultimo saluto.
Va bene rinviare i matrimoni: c’è tempo per vivere ed essere felici. Va bene rinviare le feste di laurea e le gite fuori porta, anche perché non si comprende come si potrebbero realizzare mantenendo la distanza fisica di un metro. Vietare la celebrazione dei funerali invece mi appare una punizione ultima, definitiva, crudele e non strettamente necessaria.
Tutti i servizi non essenziali sono stati vietati per limitare le occasioni di contagio. Va bene. Però Amazon continua a consegnare le sue merci, tanti lavoratori continuano a produrre seguendo le prescrizioni igieniche, le file al supermercato – tutto il giorno – continuano ad essere regolamentate con tanto di guanti, mascherine, distanza di sicurezza e carabinieri che controllano, mentre lo stesso pare non possa farsi per il rito antropologico fra i più antichi e potenti, che riveste una importanza psicologica enorme nel fondamentale momento del passaggio fra la vita e la morte.
Una importanza tanto per chi muore quanto per chi resta. Laddove si potrebbero magari semplicemente porre misure e limitazioni, anche sul numero dei partecipanti.
Il funerale non è essenziale alla sopravvivenza, si dirà tautologicamente. Certo, e sono d’accordo. Tutti gli sforzi per la vita vanno fatti prima. E per questo sono importanti i respiratori. Ma un morto non è solo un morto, una carcassa senza vita che deve essere smaltita, magari trasportata anonimamente dentro una fila di mezzi dell’esercito presentati feticisticamente in tv. Il morto ci pone in un confronto diretto con il profondo e ineludibile mistero della vita, del tempo che passa, di ciò che svanisce per sempre, del mondo degli affetti e dei legami che scompaiono, dell’incertezza perenne della condizione umana.
Le ferite profonde che si stanno infliggendo, per la mancata e corretta ritualizzazione della perdita, riguarderanno migliaia di persone, tutti quelli che vedranno i loro cari andarsene, per coronavirus e non, durante questi mesi. E non sarà facile sanarle. E’ una limitazione, quella del divieto di celebrare i funerali, più dura della quarantena e del distanziamento fisico. Una violenta rescissione di uno fra i momenti più sacri e più umani dell’esistenza.