Sarà la quarantena, deve essere per quello che mi commuovo continuamente. Un po’ come quando ero incinta e mi faceva piangere anche la pubblicità dello shampoo, e tutti mi dicevano “tranquilla sono gli ormoni”. Adesso la vicina di casa mi saluta e mi commuovo, sento l’inno nazionale e mi commuovo. Non sono gli ormoni, è la quarantena. Vedo il presidente Conte che parla e mi commuovo. Lì magari sono anche gli ormoni, ma ritengo sempre che sia la quarantena.

Però ho capito di aver toccato il fondo davanti alla circolare ministeriale. Mi sono commossa anche lì. Di solito, quando a scuola ci arriva una circolare del ministero le reazioni sono variegate, vanno dall’indifferenza all’insofferenza, dalla sottomissione alla polemica, passando anche per le lacrime ma che di solito sono causate dal fortissimo senso di ridicolo per il linguaggio burocratico pieno di acronimi che neanche le Giovani Marmotte.

Invece quando qualche giorno fa, dopo settimane di navigazione a vista in mezzo alla tempesta, è arrivata la prima circolare ministeriale sulla didattica a distanza, giuro, mi sono commossa, come se sperassi di trovarci la rotta, le coordinate e la data presunta di arrivo. Già solo vedere il famigliare svolazzo dell’intestazione, con quella grafia corsiva un po’ retrò, mi ha intenerita. E poi l’inizio. Di solito iniziano all’attenzione di qualcuno e poi subito a dirti che, in ottemperanza a questo e a quello, ci si aspetta che noi si faccia tutto, presto e bene e occhioairicorsi.

Questa volta, invece, iniziava con “carissimi”. Cioè, neanche venisse dal papa. E c’era tutto un preambolo da generale che si rivolge alle truppe lacere e macilente che stanno avanzando nel fango ma non mollano. E’ lunga otto pagine, ma la prima era davvero necessaria a farci sentire meno soli.

Poi però ci sono le altre sette. E qui torna il consueto virtuosismo verbale per dire che la missione è disperata, la situazione è tragica, i mezzi sono quelli che sono, ma se qualcuno può farcela quelli siamo noi, quindi forza, crediamo in voi. Ah, e naturalmente occhio ai ricorsi. Ma quando la commozione iniziale è passata e stanno per affiorare i consueti improperi, ecco che l’occhio cade sulla cosa davvero importante. La richiesta di attenzione ai casi di sostegno, ai ragazzi con Dsa, con Bes, con una qualche fragilità.

E certo, perché siamo la scuola dell’inclusione, quella dove dobbiamo essere attenti a tutti, contemporaneamente, in modo personalizzato, efficace e competente, ma con pochi mezzi, poche ore, pochi insegnanti di sostegno, zero soldi, e ancor meno strumenti. Però se non ce la facciamo, onta, biasimo e disonore.

E adesso che neppure li vediamo in faccia, se non dietro a uno schermo, come li aiutiamo quei ragazzi? Come li aiuta l’insegnante di sostegno, che costruisce tutto il suo lavoro sul rapporto di fiducia, personale, con l’alunno e con la classe? Che in certe ore è l’indispensabile mediatore e in altre ore si mette un passo indietro perché prova a lasciare un po’ di spazio? Che deve interpretare da un’alzata di spalle che oggi non è cosa, e da uno sguardo obliquo che c’è bisogno di una mano extra? Che capisce dal tono di voce qual è il problema, che si siede su una sedia strappacalze a schematizzare quello che dico se mi perdo in dissertazioni prolisse?

Io sono stata per un po’, il tempo di qualche supplenza, insegnante di sostegno. E’ uno dei lavori più duri del mondo. Ed è un’esperienza che tutti dovrebbero fare, non solo gli insegnanti, tutti. Sì, va bene, c’è chi non lo fa come dovrebbe, trovatemi una categoria immune. Ma quel mettersi a fianco dei ragazzi, passare la mattina saltando da una materia all’altra, cercando di sciogliere i nodi, trovare le chiavi, allargare gli orizzonti, elargire buffetti, fissare dei limiti, quella cosa lì, adesso va fatta anche a distanza.

Usando tutto, come fanno i miei colleghi: il telefono, le videochiamate, le ore sulla chat, i disegni fatti a mano e fotografati, i messaggi vocali che durano come un audiolibro. Tutto, pur di vedere quel messaggio, quello che prima o poi arriva. Quello che dice “grazie, prof”. Ma grazie anche a voi, colleghi. Ecco, mi commuovo di nuovo. Sarà la quarantena.

*professoressa presso l’Istituto professionale Lombardi (Vc). Autrice della pagina Facebook Portami Il Diario

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