Il tempo e le risorse perdute forse si possono ancora recuperare. E intanto con investimenti contenuti si possono sgravare i medici con attività base di telemedicina. Che ora verrebbe utile
La sanità è sotto pressione. Ma il peggio è che, trascorsa l’emergenza coronavirus, il Paese rischia di perdere il Servizio sanitario universale, e cioè quel sistema che garantisce equamente le cure a tutti i cittadini. Nel giro di otto o nove anni potrebbe cioè sparire una conquista sociale sulle cui rovine sono già pronte a lucrare banche e compagnie assicurative con nuovi prodotti finanziari per la sanità.
“La finanza sta scommettendo sul fatto che il Servizio sanitario nazionale non terrà. Ma noi abbiamo il dovere di difenderlo con le unghie e con i denti”, spiega Enzo Chilelli, docente di marketing in Unitelma, l’Università telematica della Sapienza di Roma. Come? Per il professore, ingegnere informatico con un passato nella multinazionale statunitense dell’automazione Honeywell e ai vertici dell’Anci sanità, la strada maestra è quella della digitalizzazione.
Secondo le sue stime, il passaggio al digitale e la centralizzazione dell’amministrazione sanitaria consentirebbe di tagliare del 20% i costi. In questo modo, sull’esempio di quanto è avvenuto per le ricette mediche, appena dematerializzate, si potrebbe gestire meglio la spesa sanitaria pubblica reperendo risorse per assumere medici e infermieri e investire in telemedicina. Con piccoli sensori da 20 euro si possono infatti già oggi monitorare a distanza i pazienti con un dispendio contenuto di risorse. Di qui la proposta al ministro della Salute Roberto Speranza: “Si faccia carico di questa istanza e vediamo il Paese cosa risponde dopo aver passato questa drammatica fase in cui siamo rimasti assolutamente scottati dalla mancanza di apparecchiature e personale medico”.
È tutto nelle mani della politica. Il ritardo nella sanità digitale “nasce infatti con un regionalismo spinto e ovviamente a diverse velocità”, precisa l’esperto che ricorda come degli anni ’80 l’Italia fosse persino davanti agli Stati Uniti nella classifica della digitalizzazione mondiale. Salvo poi bloccarsi negli anni ’90 con il federalismo che ha dato più poteri alle Regioni e, a suo dire, ha contribuito in maniera sostanziale a far scivolare il Paese al 21 posto nel ranking digitale. “Se noi avessimo mantenuto il cuore delle banche dati sanitarie in capo al ministero della Salute o ad una società pubblica come Sogei, la sanità oggi sarebbe più efficace. È stato del resto fatto così con il ministero dei Trasporti, l’Inps o l’Agenzia delle entrate”, continua Chilelli.
E invece sono state create venti banche dati, una per Regione, di cui sono attive solo cinque, peraltro parzialmente. “In alcune regioni del Nord le informazioni sui pazienti sono state messe a sistema almeno a livello locale fra le diverse Asl, ma in Lazio, ad esempio, non è stato fatto neanche quello – prosegue – se io vado in una struttura pubblica o convenzionata romana a fare un esame specialistico perchè il cup ti manda dove c’è posto, vengono ripresi ogni volta i dati, mentre quello dovrebbe essere automatico con la tessera sanitaria che contiene il dato a prescindere. Le anagrafiche invece non sono nemmeno comuni e condivise. Provi a pensare che spreco di energie che c’è dietro ad una cosa così”.
Eppure bastava semplicemente aprire un fascicolo sanitario nazionale alla nascita come accade alle Entrate con il codice fiscale. “Così oggi ognuno avrebbe il suo fascicolo sanitario, perfettamente funzionante ovunque e senza spreco di risorse regionali. Perché non si può dimenticare che per ogni fascicolo sanitario, ogni regione ha un tot numero di persone che vanno pagate”, aggiunge l’esperto.
Negli ultimi trent’anni, la politica ha però scelto la frammentazione regionale per ragioni clientelari. Così sono stati moltiplicati i costi amministrativi, mentre dal governo Monti in poi sono state bloccate le assunzioni di medici e infermieri. Anche a dispetto dell’aumento della domanda di legato a doppio fino con l’invecchiamento della popolazione. “Provi ad immaginare che banca dati con studi epidemiologici e altro che avremmo potuto avere e soprattutto ogni cittadino avrebbe potuto avere accesso alle sue informazioni da qualunque luogo come accade per i dati dei patentati sul sito del ministero dei Trasporti”, spiega Chilelli.
Peraltro discorso analogo si può fare per la gestione del personale dell’intera Pubblica amministrazione. Con ingenti risparmi. “Perché la gestione del personale pubblico in qualunque latitudine e longitudine non può essere effettuata da un unico centro? – continua l’esperto – Un centro specializzato, naturalmente. Provi a pensare Zucchetti che gestisce forse due milioni di aziende e lo fa attraverso un sistema assolutamente remoto e lì non è che sta trattando un’azienda, sta trattando imprese con due dipendenti e altre con 5mila dipendenti”.
In sostanza, si tratta quindi di superare un problema organizzativo. Nell’interesse della salute dei cittadini. “E invece noi continuiamo ad oggi, nonostante una legge del 2013 preveda che si possano conservare le cartelle cliniche solo in formato digitale, noi continuiamo a stampare tonnellate di cartelle digitali che poi vengono date per la conservazione all’esterno. È una follia – aggiunge -. Non serve assolutamente a nulla e i trasportatori, quelli che le conservano, i custodi, tutta questa gente è inutile in un contesto tecnologico. Sarebbero certamente utilissimi se fossimo rimasti al 1950. Ma se noi non cambiamo l’organizzazione, credo che facciamo poi tanta fatica a migliorare quelli che sono i servizi”.
Di questo passo, si rischia di mettere a repentaglio l’universalità del sistema sanitario nazionale. Che cosa significa? Che oggi il Paese si fonda sul principio, costituzionalmente garantito, di offrire le cure a tutti i cittadini che ne abbiano bisogno. Negli ultimi anni ci sono stati aumenti nei ticket, allungamenti nei tempi di attesa per curarsi ed incrementi nella spesa privata in sanità degli italiani, ma siamo ancora anni luce lontani dal modello statunitense in cui si cura solo chi può pagare. Il problema è che il modello italiano sarà messo a dura prova dall’invecchiamento della popolazione che progressivamente richiederà sempre più cure. “Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il 20% della popolazione italiana è over 65 e andremo verso un 25% fra nove anni. Non potremo seguirli fisicamente ad uno ad uno perché gli anziani diventano più dei lavoratori ”.
La finanza scommette contro, ma la tecnologia offre una ciambella di salvataggio. “Con un semplice monitor, con semplici sensori di movimento di pressione degli orologini che si trovano in vendita a 20 euro, si può fare il monitoraggio costante 24ore su 24 -spiega-. Il costo di questa roba qui sarebbe un una tantum da 300 euro, tanto quanto la visita di un medico fuori porta. Il monitoraggio della salute dei cittadini si può fare digitalmente. Ma non lo deve fare la singola Asl perché costa di più. Ci deve essere un centro nazionale dedicato a questo”.
Se la digitalizzazione non ci sarà, l’Italia potrebbe perdere il suo sistema sanitario per tutti come vorrebbero le assicurazioni che da anni scommettono sul crac della sanità sfornando nuovi prodotti. “Oggi però al ministero della Salute c’è un uomo di sinistra, che dovrebbe avere a cuore il tema della sanità per tutti. Finita l’emergenza, facesse una proposta per la digitalizzazione della sanità e provasse a portarla avanti”.