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di Pinuccia Ruggieri (psicoterapeuta a Crema)
E’ stimolante il suggerimento di Antonio Padellaro (su Il Fatto Quotidiano del 15 marzo) sulla necessità anche di psicologi in questo momento. Padellaro coglie l’urgenza anche di un altro di tipo di contenimento: emotivo e psichico, altrettanto vitale di quello sanitario e normativo.
Vorrei partire proprio dal “contenere”, imperativo categorico che rimbalza negli appelli chi si sta prodigando per il superamento di questa situazione. Contenere dal latino continere (composto di cum – “con” – e “tenere”): frenare, reprimere, trattenere, ma anche comprendere in sé, racchiudere, accogliere nel proprio interno. Per l’aspetto “esterno” del contenimento, cioè tutte le azioni per frenare e reprimere il contagio molto si sta facendo. Meno evidente è il rovescio della medaglia: il mondo interno che, d’un tratto, si spopola e si ripopola… di paure, smarrimento, emozioni e sentimenti contrastanti che non solo investono relazioni, affetti e ruoli sociali ma ci costringono a fare i conti con ciò che non sempre ha una corrispondenza lineare, dove se faccio A corrisponde B.
Distanza e distanziamento sono concetti che meritano riflessioni oggi che per necessità ci viene imposta una misura regolatrice e “oggettiva” (almeno un metro) fra noi e gli altri, magari con l’illusione di una corrispondenza puntuale fra distanza esterna e vissuto psichico.
Improvvisamente possiamo trovarci spaesati e vacillare, siamo in un certo senso chiamati a “lavorare” sul dare un senso a ciò che sta accadendo nella nostra vita, incorporando e rielaborando eventi, situazioni, stati d’animo. Ci troviamo sul terreno del “contenere”, del comprendere e accogliere dentro di noi ciò che spesso abbiamo delegato o affidato a “contenitori” diversi: lavoro, scuola, relazioni virtuali o reali… Possiamo sentirci impreparati e a disagio per questo “lavoro” su noi stessi, oggi palesemente di nostra “competenza”.
Cerchiamo (comprensibilmente) altri contenitori con “cose da fare” e chiare istruzioni. Lo spazio sospeso è un luogo affollato di domande, pensieri, “andirivieni” di riflessioni ed emozioni diverse e contrastanti, intorno a riferimenti non più certi che scandiscono e “contengono” la nostra identità personale e sociale, in un contesto complicato per la nostra stessa esistenza. Qualcosa, nonostante i dispositivi di protezione individuale, circola potentemente, inafferrabile, con una “carica virale” potenzialmente destabilizzante.
Tornano alla mente i porcospini di Shopenhauer, metafora anche dell’attuale agognata “giusta distanza” ma, insieme, segno della ricerca costante di equilibrio nelle relazioni e negli affetti, con se stessi e con gli altri. Troppo vicini ci si punge, troppo lontani è il freddo della solitudine ad essere pungente. E ora? Riusciamo ad affrontare la necessità di un nostro distanziamento interno, per guardare cosa proviamo, cosa sta accadendo dentro e fuori di noi? Per provare a trasformare ciò che sentiamo, attraversando dolore, sofferenza e disagio?
Penso che una delle paure forti, magari non consapevoli, sia legata al timore di non saperci contenere, trattenendo dentro di noi, come opportunità e minaccia insieme, un tempo rallentato da attraversare sul terreno un po’ minato del chi siamo, quali relazioni abbiamo, in che contesto viviamo, quali priorità, desideri e sogni.
Ci sarebbe proprio bisogno anche di psicologi per accompagnare questi processi che, pur dolorosi, possono essere trasformativi e generativi. Bisogna però passare attraverso questo dilagante lutto e profondo senso di perdita. Dopo la guerra non si torna mai esattamente “come prima”. E’ un importante passaggio di consapevolezza del lavoro di ri-costruzione che ci attende.
Le cicatrici interne difficilmente troveranno una risoluzione puntuale alla scadenza di decreti. Perciò servono anche gli psicologi: per la “digestione” delle esperienze emotive (ci ricorda Wilfred Bion) e per garantire spazi di pensabilità per le drammatiche vicende che stiamo umanamente attraversando.