"La catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque", scrivono tredici medici dell'ospedale Papa Giovanni XXIII, in un lettera pubblicata sul New England Journal of Medicine Catalyst Innovations in Care Delivery e titotala "Nell'epicentro del Covid-19". Qui la situazione è così grave - continuano -che siamo costretti a operare al di sotto dei nostri standard di cura"
Il Coronavirus è “l’Ebola dei ricchi” e la “catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque”. Sono le parole messe nero su bianco da tredici medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, in un lettera pubblicata sul New England Journal of Medicine Catalyst Innovations in Care Delivery. Da molti giorni, ormai, il capoluogo orobico è la città più colpita dal contagio. La lettera, pubblicata sotto al titolo “Nell’epicentro del Covid-19“,è un racconto e una sorta di monito al tempo stesso.
“L’Ebola dei ricchi”, come la definiscono i medici bergamaschi “richiede uno sforzo coordinato e transnazionale. Non è particolarmente letale, ma è molto contagioso. Più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde il virus. La catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque”, scrivono i camici bianchi, raccontando la drammatica situazione che stanno vivendo. “A Bergamo – continunano – l’epidemia è fuori controllo. Il nostro ospedale è altamente contaminato e siamo già oltre il punto del collasso: 300 letti su 900 sono occupati da malati di Covid-19. Più del 70% dei posti in terapia intensiva sono riservati ai malati gravi di Covid-19 che abbiano una ragionevole speranza di sopravvivere”.
I medici raccontano il contesto dove operano: “Lavoriamo all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, struttura all’avanguardia con 48 posti di terapia intensiva. Nonostante Bergamo sia una città relativamente piccola, è l’epicentro dell’epidemia, più di Milano”, scrivono. “La situazione è così grave – continuano – che siamo costretti a operare al di sotto dei nostri standard di cura. I tempi di attesa per un posto in terapia intensiva durano ore. I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono in solitudine senza neanche il conforto di appropriate cure palliative. Siamo in quarantena dal 10 marzo”.
Quindi la missiva diventa una sorta di reportage dalla corsia dellla Rianimazione: “Stiamo imparando che gli ospedali possono essere i principali veicoli di trasmissione del Covid-19 – proseguono – poiché si riempiono in maniera sempre più veloce di malati infetti che contagiano i pazienti non infetti. Lo stesso sistema sanitario regionale contribuisce alla diffusione del contagio, poiché le ambulanze e il personale sanitario diventano rapidamente dei vettori. I sanitari sono portatori asintomatici della malattia o ammalati senza alcuna sorveglianza. Alcuni rischiano di morire, compresi i più giovani, aumentando ulteriormente le difficoltà e lo stress di quelli in prima linea”.
I 13 medici continuano la loro lettera racconto: “Questa epidemia non è un fenomeno che riguarda soltanto la terapia intensiva, è una crisi sanitaria e umanitaria. Abbiamo urgente bisogno di agenzie umanitarie che operino a livello locale”. Ma soprattutto, “abbiamo bisogno di un piano di lungo periodo per contrastare la pandemia“. Questo disastro – continuano – “poteva essere evitato soltanto con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio. Per affrontare la pandemia servono soluzioni per l’intera popolazione, non solo per gli ospedali”. I camici bianchi in prima linea contro l’emergenza coronavirus, suggeriscono: “Cure a domicilio e cliniche mobili evitano spostamenti non necessari e allentano la pressione sugli ospedali. Bisogna creare un sistema di sorveglianza capillare che garantisca l’adeguato isolamento dei pazienti facendo affidamento sugli strumenti della telemedicina. Un tale approccio limiterebbe l’ospedalizzazione a un gruppo mirato di malati gravi, diminuendo il contagio, proteggendo i pazienti e il personale sanitario e minimizzando il consumo di equipaggiamenti di protezione”. Negli ospedali, ribadiscono, “si deve dare priorità alla protezione del personale medico. Non si possono fare compromessi sui protocolli. Le misure per prevenire il contagio devono essere implementate in maniera consistente”.