Chi scrive ha sempre considerato Massimo Giannini una delle migliori penne della sua generazione. Per cui ora spiace vederne il colorito sempre più livido e un costante imbarazzo stampato sul volto. Il rischio di veder evaporare la sua credibilità quale commentatore. Come mercoledì sera ospite della Gruber, impegnato a ripetere per l’ennesima volta il plot del denigratore a prescindere del nostro premier.
Ormai è domanda apparentemente inevasa chiedersi le ragioni di una per me preconcetta ostilità. Che tenta di giustificarsi ostentando l’intransigente rigorismo da vecchio azionista alla Ernesto Rossi, alla Pietro Calamandrei (stridente, nel caso di Giannini, con antiche simpatie dalemiane sul corrivo); rimproverando a Giuseppe Conte l’ignominia, in un panorama di pervicaci saltatori della quaglia, di essere passato dalla guida di un governo giallo-verde a uno giallo-rosa. Successione cromatica che un osservatore non partigiano saprebbe riportare alle corrette ragioni: nel primo caso l’avvocato era stato ingaggiato da mediatore professionale tra i due azionisti del team governativo Salvini-Di Maio; in quello successivo – appreso in tempi rapidi il mestiere – ha giocato in proprio, rivelando affidabilità e quel certo garbo inusuale nella stridula rozzezza del panorama politico italiano.
Un pollice verso che contrasta con il crescente apprezzamento nazionale e internazionale dell’opera di governo, in una situazione a dir poco proibitiva. Tanto da proporne la sostituzione con una variazione sul tema dell’uomo forte in versione notabilare; caldeggiando l’alternativa priva di concreti riscontri rappresentata dal Mario Draghi, certamente meritevole nei confronti dell’Euro difeso proferendo l’ormai celebre “whatever it takes”, ma altrettanto certamente membro dell’establishment bancario internazionale e con qualche peccatuccio relativo (magari quale vice presidente e membro del management di Goldman Sachs, al tempo in cui la banca d’affari americana concorreva a gettare nel baratro l’intera economia greca con la sue spregiudicate speculazioni finanziarie).
Forse sta qui la vera colpa di Conte: non appartenere a nessuna delle cordate che costituiscono il potere informale di cui si alimenta la vita pubblica capitolina. Il misfatto di essere un parvenu nel giro di antiche frequentazioni; circuiti di appartenenze, interlocuzioni e comparaggi che travalicano le divisioni ufficiali affondando nell’insipido minestrone cucinato dal Potere sotto il Cupolone. Legature relazionali; che si rafforzano vicendevolmente e costituiscono il fondale di tutti i giochi sotterranei dai quali – appunto – risulta estraneo il neofita giunto inopinatamente al governo.
Certamente peccato gravissimo agli occhi di uno dei più potenti tra questi clan che si arrogano il diritto di cooptare i nuovi venuti: quello che da decenni fa capo a Eugenio Scalfari e alla sua corte. Da qui il risentimento verso chi si è seduto sulla poltrona presidenziale senza neppure chiedergli il permesso. Tanto da preferire qualunque soluzione che lo mandi a casa, dal governissimo-ammucchiata con dentro tutti fino alla ricerca del salvatore della patria qualunque esso sia.
Il fatto è che il capoclan ormai rivela tutto il peso della senescenza; le sue analisi sono sempre più ripetitive al ribasso (puntare in prospettiva su Zingaretti e il Pd è un po’ diverso del farlo interloquendo con Berlinguer e il vecchio PCI); i bravi per rimettere a posto gli intrusi sono il titubante Giannini o il curiale Corrado Augias e non hanno certo la grinta da erinni di una Miriam Mafai. Per cui il cannoneggiamento contro Giuseppe Conte mostra un’imbarazzante carenza di mira.
E le nuove leve del gruppo Gedi (il conglomerato Stampa-Repubblica-Secolo XIX) rivelano tutti i loro limiti. Come il Massimiliano Panarari che polemizza col premier sul fronte looklogico, dimostrando di non conoscere la differenza tra la pochette (pezzuola di seta variopinta da far spuntare a sbuffo dal taschino), che Conte non adotta, e il fazzoletto candido, a tre/quattro punte oppure piegato a rettangolo, che – difatti – fa capolino dalla giacca del premier.
Le vecchie penne de il Mondo o de l’Espresso di Arrigo Benedetti questo lo sapevano. Un mondo finisce. E con lui le fisime da maître à penser di vecchi manovratori e i loro incerti epigoni.