Il coronavirus ci ha colto tutti impreparati. Non è stato come partire per un viaggio pianificato per tempo, quando si fa una lista delle cose che mancano e si preparano le valigie. I decreti si sono susseguiti velocemente, uno dopo l’altro, senza che si potesse realizzare cosa andasse fatto, e acquistato, rapidamente.

Ad esempio, per le famiglie costrette a casa per una quarantena che probabilmente durerà almeno due mesi se non oltre, fare scorta di tutto ciò che poteva servire per i bambini: carta, anzitutto, per disegnare ma anche per stampare i compiti, pennarelli, matite, pastelli, pongo e tutti quei materiali utili a fare attività alternative ai videogiochi, specie per i piccolissimi che soffrono della totale virtualità.

E poi magari giocattoli per passare il tempo, giochi in scatola, ad esempio, libri cartacei, ad esempio, non solo da leggere su kindle (visto che il numero di ore che i nostri figli passano sugli schermi è schizzato a livelli impensabili). Cose non indispensabili alla sopravvivenza fisica, ma certamente a quella psicologica dei minori.

Tutto questo non è stato possibile e non è più possibile ora. Sono girate sui social le foto dei supermercati con reparti di pennarelli e altra cartoleria sbarrati, perché giudicati, per legge, beni non utili. Una piccola dimostrazione del fatto che le famiglie sono state relativamente abbandonate a se stesse, come in tanti hanno scritto: si poteva e si può fare di più per loro, perché non è possibile che i tabaccai siano rimasti aperti per sensibilità verso chi fuma eppure chi ha figli piccoli si trovi nell’impossibilità di acquistare carta, pennarelli o qualche giocattolo in più, specie quelli già in stock, ovvero non da produrre.

Il problema, ovviamente, riguarda soprattutto le famiglie con meno risorse economiche e culturali, come stanno denunciando in questi giorni due associazioni che si occupano di infanzia, Alliance for investing in Children e Alleanza per l’infanzia, che in comunicato hanno messo al centro dell’attenzione i bambini in povertà assoluta del nostro paese, oltre 1.260.000 (triplicati negli ultimi dieci anni, oggi siamo al 12,5%).

Questi ultimi sono rimasti, tra l’altro, non solo senza materiali per i giochi o per disegnare ma anche senza quegli strumenti digitali utili per “andare a scuola”, che si possono acquistare: il governo ha pensato ai lavoratori in smartworking, a patto ovviamente di avere i soldi. Ma il punto è: come si può pensare di dare per scontata la didattica online senza essersi prima assicurati che tutti gli alunni avessero un computer e una connessione?

Parlando con insegnanti della scuola pubblica (nelle scuole private giocoforza le soluzioni si sono trovate più rapidamente perché esiste una omogeneità sociale ed economica maggiore negli alunni), ci si rende conto di quanto sia inverosimile delegare completamente il proseguimento della didattica on line alle scuole, senza sostegni davvero concreti sia alle scuole che alle famiglie: c’è chi ha in classe bambini rom, chi stranieri che parlano poco italiano e che hanno genitori che magari fanno lavori umili e magari stanno ancora fuori tutto il giorno. Bambini che non hanno mai visto un computer, e al massimo giocano con lo smartphone della madre. Il problema è anche per le maestre, che stanno vivendo un carico assurdo di stress, e si trovano del tutto impreparate, specie le più anziane, a gestire e inventare una didattica on line senza alcuna formazione e in queste condizioni.

Per questo “Alliance for Investing in Children” e “Alleanza per l’Infanzia” auspicano un collegamento tra scuole e terzo settore per assicurare continuità didattica e diritto allo studio ai bambini più vulnerabili. E chiedono al governo di garantire una serie di cose totalmente condivisibili:

1) che ogni bambino abbia a disposizioni strumenti elettronici per la didattica digitale e la connessione a internet;

2) che si mettano a disposizione ambienti adibiti alle attività educative all’interno dei quali micro-gruppi di bambini possano assistere alle lezioni on line affiancati da insegnanti;

3) che ci siano insegnanti ed educatori professionali che sostengano le attività didattiche, eventualmente anche a domicilio;

4) che si garantiscano pasti a mezzogiorno per i bambini già indigenti che non possono usufruire della mensa;

5) che si pensi ad una copertura economica straordinaria per le azioni didattiche ed educative.

Il tema delle famiglie deve essere messo con più forza al centro del dibattito, perché esiste un’emergenza sanitaria, una economica e una sociale, e in quest’ultima i più piccoli sono i più colpiti.

E proprio da questo punto di vista, vale la pena ricordare come i decreti governativi non abbiano dato alcuna indicazione rispetto alla possibilità per i bambini di poter uscire anche per trenta minuti, come raccomandato dalla stessa Oms proprio ai tempi del coronavirus, e lasciando le famiglie con interrogativi senza risposta.

Segnalo a questo proposito un’iniziativa di 130 genitori fiorentini, che hanno scritto al sindaco, Dario Nardella, una lettera per chiedere mezz’ora d’aria per i propri figli. Nella lettera i genitori, che ripetono mille volte di essere cittadini responsabili che rispettano scrupolosamente le disposizioni imposte, si dicono preoccupati del fatto che nessuno “si sia posto seriamente il problema dei bambini”. Parlano di un “diritto incerto” che disorienta i genitori, appunto, e chiedono che si possa distinguere da situazioni di effettivo pericolo e situazioni invece che vanno sanzionate. Vogliamo, scrivono, “misure per consentire ai bambini di poter uscire di casa a sgranchirsi le gambe, per evitare che questa emergenza produca effetti sul loro equilibrio psicofisico”. Sia per i bambini delle famiglie fortunate sia soprattutto per i più disagiati.

Ci auguriamo che, pur nell’emergenza, il governo possa ascoltare queste voci e dare alcune risposte concrete. Perché anche i minori sono fragili, proprio come gli anziani, seppure in altre forme.

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