In Italia circolano due virus. Quello propagatosi questo inverno sta gettando nel panico la popolazione. Quello che circola da tempo immemorabile è più subdolo, ma nelle sue mutazioni perverse persino più devastante: lo statalismo burocratico-straccione. Quando si ricombinano in uno squallido intreccio, al dramma sanitario si aggiunge il rischio dell’Armageddon economico.

Per isolare il buro-virus statalista non occorrono microscopi e vetrini. Basta leggere, ad occhio nudo, uno dei molteplici provvedimenti governativi. Ad esempio il Decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 battezzato pomposamente Cura Italia. Avrebbe l’ambizione di rimediare ad una catastrofe economica epocale distribuendo qualche manciata di mangime per piccioni.

Prendiamo l’art. 57 che regola le garanzie pubbliche sui debiti delle imprese verso banche e istituzioni finanziarie. Si tratta della decantata rete di protezione da 350 miliardi (immaginari). Purtroppo invece di fare chiarezza e infondere certezze è solo un guazzabuglio di farneticazioni che nessuno riesce a decifrare. Né tra gli imprenditori, né tra i banchieri. In sostanza mentre il sistema produttivo italiano sta per implodere, dalle paludi ministeriali si levano miasmi di semantica inintelligibile.

Il punto cruciale è questo: la pandemia travolge sia lo stato che il settore privato. Con gli interventi della Bce, la sospensione del Patto di Stabilità e il possibile intervento del Mes, si è stretto un cordone sanitario temporaneo intorno ai conti pubblici. Ma in Italia nel settore privato regna la disperazione, l’incertezza e il terrore della bancarotta. I motivi sono essenzialmente tre:

1) non si sa se i fornitori saranno in grado di onorare le commesse;
2) non si sa se i clienti saranno in grado di pagare le forniture;
3) non si sa se le banche concederanno credito per superare i mesi di chiusura forzata o chiederanno di rientrare dalle esposizioni, come avvenne durante le crisi del 2008-09 e del 2011-12.

Quello che occorre disperatamente, hic et nunc, è un segnale chiaro, semplice e immediato dal governo. Comprensibile per l’artigiano di Vigevano come per l’Amministratore delegato della multinazionale. Bisogna infondere la certezza che per tutta la durata della crisi (al momento impossibile da determinare) non vi sia pericolo che le imprese sane crollino sotto il peso dei debiti: né i propri, né quelli dei fornitori, né quelli dei clienti. Altrimenti si innesca un cortocircuito per cui nessuno si fida più dell’altro, le banche non si fidano delle imprese e l’effetto domino porterebbe al collasso l’intero sistema produttivo.

Quindi vanno demolite le cervellotiche disposizioni del decreto Cura Italia che – seppure la macchina burocratica dello Stato (e delle banche) fosse perfettamente oliata – genererebbero effetti concreti forse fra due mesi, a disastro avvenuto.
In sostanza per tutte le imprese di qualsiasi dimensione (a cui vanno aggiunte anche le partite Iva) la Cassa Depositi e Prestiti deve fornire garanzie pressoché automatiche, attraverso un fondo speciale.

Basterebbe andare in banca e sulla base di fatture e buste paga richiedere un prestito per coprire la differenza tra costi e ricavi durante i mesi di emergenza a partire dal 1° febbraio. Il prestito verrebbe catalogato come Coronavirus Loan (per la gioia di chi ha fatto tre anni di militare a Oxford) segregato dalle altre forme di passività e non impatterebbe sui rating delle aziende, né sui requisiti di capitale delle banche.

Gli interessi sarebbero limitati a pochi decimali (un minimo contributo ai costi di garanzia) e la durata variabile da cinque a dieci anni, con la possibilità di estenderla fino a 15 per i settori maggiormente colpiti come turismo, commercio al dettaglio e ristorazione. Così verrebbe dissipata la fitta coltre di incertezza.

Inoltre lo stato dovrebbe disporre l’immediato pagamento di tutti i debiti della Pa ai fornitori. Il governo italiano ha già ricevuto una condanna dalla Corte Europea quindi i responsabili delle amministrazioni inadempienti dovrebbero essere chiamati a rispondere in prima persona. Discorso analogo per la compensazione tra crediti e debiti verso l’Agenzia delle Entrate. Qualsiasi impedimento deve essere abbattuto seduta stante.

Infine nei sonnacchiosi tribunali della penisola giacciono migliaia di faldoni relativi alle procedure concorsuali. In sostanza i curatori fallimentari hanno a disposizione circa 100 miliardi (secondo una stima del Tribunale di Milano) che in parte potrebbero essere subito girati ai creditori dei falliti e invece rimangono scelleratamente bloccati. I Patuanelli di questo mondo che si vantano di non cedere alle pressioni degli industriali sulla chiusura delle fabbriche nei loro vaneggiamenti immaginano che l’economia si possa congelare come una sogliola per tirarla fuori con comodo quando il mondo sarà tornato alla normalità.

Disgraziatamente la normalità è stata spazzata via. Le imprese sono organismi vitali inseriti in catene del valore, intrisi di rapporti, contratti e fiducia. È un patrimonio acquisito in decenni di sforzi e di competizioni globali che tiene a galla il paese con 460 miliardi di esportazioni.

Se l’Italia si arresta, nessuno aspetterà i comodi di Gualtieri&Co: nelle catene del valore si insinueranno altre imprese di paesi dove la reazione non è stata isterica e approssimativa. E dove il sistema paese protegge il tessuto produttivo, non lo strappa come fosse un cencio vecchio.

In parole povere, va fatto intendere agli statisti da operetta venezuelana che il fatturato in caduta libera non si traduce solo in perdite per gli imprenditori, ma in licenziamenti, minor gettito fiscale, debiti non onorati, banche fallite, eccetera.

Lo stato non produce ricchezza. Assorbe parte di quella generata dal settore privato per fornire servizi. Insieme alle imprese spariscono anche gli ospedali.

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