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Coronavirus, Vittorio Sgarbi si scusa: “Raramente sbaglio ma sono stato irresponsabile”. Poi però rilancia: “Non è peste, basta distanza di un metro”

In due diverse interviste il critico d'arte torna a dire la sua sull'epidemia

di F. Q.

“Mi scuso raramente perché raramente sbaglio, generalmente ho ragione… In questo caso io ho ascoltato svariati virologi che hanno, almeno sino al 9 marzo, stimato il pericolo del covid-19 come relativo… Poi la situazione è stata valutata diversamente. E io mi sono trovato nel mezzo di una tempesta polemica in cui non avrei dovuto trovarmi. È stato da irresponsabile perché non dovevo far circolare informazioni rassicuranti che esulano dalla mia competenza. Però è anche vero che io sono irresponsabile di quelle informazioni la cui responsabilità ricade sui competenti che le davano. E che non mi pare si scusino”. Così Vittorio Sgarbi in un’intervista a Il Giornale fa un passo indietro si scusa per le tesi sostenute pubblicamente nei primi giorni dell’emergenza coronavirus. Il critico d’arte aggiunge: “Non volevo incitare nessuno a violare nessuna normativa. Ho parlato con persone della zona e anche di Piacenza. Si sentivano trattate come appestati. Io volevo veicolare un messaggio di carità cristiana, ai malati si sta vicini. Ovviamente senza violare quarantene e andando quando la zona veniva indicata come bonificata. Non volevo fare nessuna provocazione o violazione. Volevo trasmettere ottimismo e che questa malattia non è come la peste. Ma di nuovo sono stato frainteso e quindi mi scuso. Lo ridico: mai incitato nessuno a violare decreti. Anzi temo che le chiusure e il tutti a casa siano stati fatti anche con ritardo. Ma di tutto questo si discuterà quando avremo i dati finali. Lo ridico: sono stato irresponsabile a fidarmi di informazioni che credevo scientifiche e certe, ma non lo erano. Adesso leggo poesie su Facebook e parlo di arte cose su cui sono competente io e mi appartengono”, spiega.

Poi però, in un’altra intervista a Il Riformista, rilancia: “Parlando con un carabiniere in strada, abbiamo convenuto su un punto: è essenziale la distanza di un metro, non il divieto di uscire di casa. Il coronavirus non è una peste nell’aria. Si può uscire senza venir contagiato, se si mantiene la distanza di sicurezza dagli altri. Mi sembra una inibizione di libertà elementari. Mi sembra che ci siano misure pensate in buona fede ma forzate, sin troppo draconiane. Si è agito in modo rapsodico – spiega -, tardi per un verso e senza informazione corretta. Le alte percentuali di morti in Lombardia dimostrano che gli anziani che oggi accusano il colpo sono stati quelli più colpiti all’inizio del contagio, quando le informazioni erano poche e confuse”. Poi si sofferma sui quattro moduli per l’autocertificazione in dieci giorni. “C’è poca chiarezza – dice -, le nuove restrizioni riguardano il divieto di non uscire dal Comune. Se si parla di Roma o Milano lo capisco, ma come si applica ad agglomerati dove ci sono tanti piccoli comuni confinanti, dove magari i servizi sono di prossimità tra loro? La burocrazia fa sempre pasticci”. Infine, un’osservazione sul parlamento “a distanza”: “Il parlamento si può riunire su Skype ma il voto è legato a una ritualità, come quella religiosa. Non c’è solo il voto, è un luogo di lavoro e come tanti altri, dove il lavoro è ritenuto essenziale e strategico per il sistema-Paese, deve rimanere aperto. A me i privilegi non piacciono mai, da nessuna parte”.

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