Avevo smesso di partecipare alle esposizioni già prenotate un po’ prima del decreto dell’11 marzo, durante la breve fase degli ingressi contingentati e distanze di sicurezza ovunque, palestra compresa.

Io per pudore mi ero messa da parte già da quell’ultimo week end di semi libertà, considerando fuori luogo le mie proposte creative in un momento in cui l’incertezza del futuro cominciava a serpeggiare e la paura del contagio diveniva più consistente man mano che il virus faceva la sua terrificante avanzata.

A ogni uscita del premier in tv l’ansia cresceva, la mia condizione di ‘fuori sede’, domiciliata a Roma, originaria del Salento, terra dove si trovano i miei affetti primari, mi rendeva ancora più vulnerabile non sapendo quando avrei potuto riabbracciare i miei cari e l’adorata nipotina che ora cresce con la sua purezza di bambina dentro quattro pareti, figlia unica e quindi più sola.

Di fatto sapevo che qui a casa non mi sarebbe mancato il da fare. Alla fine rallentare i ritmi non sarebbe così male, se non fosse che è coercitivamente imposto e non frutto di libera scelta. Non conoscevo la noia prima e non la conosco ora. Non facendo vita mondana, la questione non è certo l’aperitivo negato.

Questa situazione di sospensione in cui fluttiamo permette di focalizzarci su tanto altro. Su come alcuni disturbi (psicosomatici?) si siano attenuati, su quanti libri giacevano a impolverarsi, su quanto possiamo studiare e approfondire alcune conoscenze, guardare film e documentari lasciati indietro, ascoltare gratuitamente qualche audiolibro o tutta la musica che lo streaming permette. Fino a che tiene botta internet, c’è davvero tanto, compresa qualche visita guidata virtuale.

Arrivano mail delle associazioni di cui faccio parte che invitano e spronano a comporre, a scrivere, a dipingere, approfittando della clausura per produrre. Stranamente di tutte le attività alle quali mi dedico in questo momento è proprio quella artistica a essere stata relegata all’ultimo posto, in stand by, assoggettata al termine delle grandi pulizie di primavera e alla riconquista del mio equilibrio e anche del mio tempo.

Già, tempo fagocitato dalla comunicazione oltre il possibile a gestirsi, tra una diretta dell’insegnante di yoga, le mille catene Covid-19 del fate girare, il destreggiarsi tra informazione, bufale e contro informazione, le video chiamate con mamma papà nipote fratello cognati, i gruppi WhatsApp i cui membri (forse immemori del fatto che ognuno di noi appartiene a tanti, troppi assembramenti internauti) continuano a intasare la memoria dello smartphone di fastidiose inutilità, che tali già mi sembravano nella precedente vita, e ora più che mai, quando non addirittura dannose.

Sulle prime abbiamo fatto festa sui balconi sventolando l’amato tricolore e affollando il vuoto anche con improbabili esibizioni sui terrazzi in un accesso di fratellanza risolto subito dopo quando, fattosi più stringente il panico, si è ricominciato a dare addosso a questo e quel nemico, da chi corre per strada ai vip che lanciano hashtag dalle loro lussuose e dorate prigioni.

Poi, sempre più impauriti e velenosi abbiamo ricominciato a sclerare tutti contro tutti. Rigorosamente a distanza di sicurezza, sui social. E se è vero che finalmente gli sconosciuti rispondono al mio saluto incontrandoci a piedi mentre si cammina nel silenzio post apocalittico delle vuote strade di quartiere, è vero anche che ognuno scansa l’altro nelle corsie dei supermercati e attorno ai banchi della frutta.

Nel frattempo abbiamo stampato il modulo per giustificare l’uscita una, due, tre, quattro volte, ogni volta più dettagliato, ogni volta più ansiogeno.

Io e il mio compagno siamo fortunati vivendo in una zona a limitata densità di popolazione dove è stato possibile anche camminare un po’, abbiamo qualche scorta in casa, ma accidenti, che stress non trovare più un pacco di farina, ma che ci farete con tutta questa farina dico io. Fare la spesa all’ipermercato è diventato troppo stressante, tra i limitati avventori che sono comunque sempre troppi e l’altoparlante che intima di non approvvigionarsi in maniera sconsiderata.

Guanti sì, guanti no, mascherine chirurgiche, con valvola o fatte in casa che agli angoli delle strade hanno già fatto la loro comparsa come nuovi rifiuti per terra o appoggiati su qualche ramo o ringhiera. Avevamo cominciato una necessaria battaglia contro la plastica e ci ritroviamo di nuovo sommersi di plastica.

Quando ci rialzeremo, sopravvissuti, avremo le ossa rotte, ma rotte veramente. Sì perché per ora, l’unica certezza è che quelli come me sono tutti senza lavoro, musicisti, artisti, artigiani, dj, allenatori e così via, ai margini del sistema produttivo necessario, lavoratori eppure non sempre riconosciuti come tali, necessari eppure superflui. Stiamo qui a chiederci cosa sarà.

Intanto giù nella mia terra d’origine dove per fortuna i contagi sono ancora molto limitati (e ancor più lo sarebbero stati senza quegli esodi dal nord) un’anziana parente è velocemente morta, sola, in ospedale, positiva al coronavirus, dopo che già da tempo ai suoi era stato impedito di accedere alla struttura nella quale viveva per evitare un contagio che invece l’ha colpita proprio lì, in quell’isolamento che da tutela si è trasformato in condanna.

E mentre scrivo, nell’arco di poco ho già cambiato diversi stati d’animo, tutti contrastanti, passando da entusiasmo a cauto ottimismo, da rassegnazione a sconforto. Ah, novità di quest’ultima settimana: il virus è riuscito a entrare nei miei sogni, non sempre incubi. Semplicemente fa capolino, nuovo tra i protagonisti delle mie notti. E ora devo fermarmi perché c’è la diretta di Conte, al termine della quale, come ogni volta, io piango.

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