E ora, come se non bastassero virus e pandemia, ci tocca sorbirci anche la retorica del dopo. Che, ovviamente, sarà bello e lucente. Qualcuno azzarda paragoni col dopoguerra italiano. Cambieremo, tutto cambierà, giurano gli ottimisti. Non è così, perché cosa e come saremo dopo lo stiamo decidendo già oggi, nei giorni terribili della pandemia e del fermo quasi totale del Paese.
In ogni guerra, e in ogni grande emergenza nazionale c’è chi muore e chi sopravvive, chi si arricchisce e chi vede precipitare la propria condizione sociale. Ci sono i generosi e i pavidi, gli altruisti e gli egoisti. Chi pensa che l’importante sia salvarsi da soli e chi invece lavora per la salvezza di tutti. E’ già così. Siamo già divisi. Le catastrofi non cambiano gli uomini. Li peggiorano. Lo state vedendo, scorrete i social, ascoltate la pessima tv di questi giorni (ovviamente ho ben presenti le poche eccezioni), seguite la politica: ognuno si sta mostrando per quello che è. Ognuno, dal cittadino comune proprietario solo del suo voto, a quei personaggi che per mestiere e funzione orientano la società. Politici e non solo, intellettuali dei clic, opinionisti, artisti. Insomma, l’insieme della classe dirigente del Paese.
Il quadro è desolante, basta guardare la tv, leggere editoriali, analizzare atteggiamenti, assistere alla pochezza (anche qui con qualche rarissima eccezione) del pensiero proposto. Politici e starlette che recitano rosari in prima serata, gente che da comodi attici soffia sul fuoco del disagio sociale, virologi del sabato sera, antieuropeisti un tanto al chilo e europeisti a tutti i costi. Il risultato è sconfortante e ci porta a dire che il paragone con un altro dopo, gli anni che seguirono la tragedia della Seconda guerra mondiale, è totalmente fuori luogo.
Prendiamo l’imprenditoria italiana, dopo la guerra avevamo Enrico Mattei e Adriano Olivetti, oggi Briatore, e Urbano Cairo, padrone de La7 e del Corriere, che balla sulle macerie pensando ai soldi che sta facendo e che farà. Il dopoguerra e il boom vengono descritti come l’età dell’oro.
Ma il Miracolo italiano e i suoi anni di straordinaria crescita (con tassi di incremento del reddito che toccarono punte del 6,8%), furono preceduti da profonde lacerazioni sociali. Dall’accordo (tanto per rinfrescarci la memoria sul come e chi eravamo) siglato tra il governo italiano e quello belga il 23 giugno del 1946. Serviva energia per la ripresa industriale e noi offrimmo al Belgio 63mila italiani in cambio di 200 chili di carbone al giorno per ogni “macarone” (ci chiamavano così) disposto a crepare nelle miniere. Il Miracolo fu pagato dal Sud in maniera drammatica.
Lo sviluppo industriale fu tutto concentrato al Nord (Lombardia, Piemonte, Liguria) e servivano braccia: 1 milione e 300mila meridionali lasciarono i loro paesi dal 1958 al 1963. Il Miracolo fu anche repressione violenta. Ai braccianti di Melissa che chiedevano pane e lavoro, rispose la Celere di Scelba lasciando sul terreno Francesco Nigro, di 29 anni, Giovanni Zito, di 15 anni, e Angelina Mauro, di 23 anni, e 15 feriti colpiti alle spalle. La polizia uccise anche diversi animali, come forma di ritorsione nei confronti dei manifestanti. Il boom economico fu rosso di sangue popolare.
Furono anni terribili ma anche anni di risveglio civile e culturale. Il cinema, la letteratura, la musica, anche quella leggera, accompagnarono e agevolarono i cambiamenti. E oggi vi sembra che all’orizzonte appaia qualcuno, un Vittorio De Sica, dei Pavese, Vittorini, Fenoglio, in grado di indicarci la strada, o, almeno, di raccontarci? Non c’è. Non se ne vede l’ombra. E allora il destino è nelle mani nostre. Dobbiamo cambiare noi. Imparare a distinguere. Ragionare e buttare nel cesso i cialtroni (in politica, nella cultura, nel mondo dell’informazione). Usare il telecomando come un bastone smettendola di arricchire con i nostri “mi piace” e anche con la nostra indignazione, chi vive di clic, di indici di ascolto, di consensi raccattati puntando sempre al ribasso.
Il dopo è già ora ed è solo nelle nostre mani.