“Da quell’istante vissi in uno stato di estasi: mi pareva di conoscere da tempo il suo nome, lo splendore dei suoi occhi, la sua carnagione, il suo profumo, i suoi gesti. Tutto mi sembrava familiare, come se le nostre due anime si fossero già incontrate in una vita precedente e, condividendo la stessa sostanza e appartenendo alla stessa origine, fossero destinate all’ineluttabile unione. Anche in questa vita terrena avevo bisogno di esserle vicino”.
La civetta cieca, di Sadeq Hedayat (traduzione e introduzione di Anna Vanzan; Carbonio Editore), è uno straordinario romanzo pervaso di allucinazioni, lirismo e amore che può essere letto come una metafora dell’invocazione d’aiuto del protagonista a un mondo che non lo comprende o che lui è, più probabilmente, incapace di comprendere o di adeguarsi a esso.
Sadeq Hedayat, uno dei più importanti e talentuosi intellettuali iraniani del ventesimo secolo, in quest’opera mette in campo tutta la sua fascinazione nei confronti di culture diverse da quella persiana. Se è vero, in realtà, che le influenze delle quartine intrise dell’esaltazione del vizio del suo conterraneo Omar Khayyam sono rintracciabili tra le righe, sono molto più evidenti i richiami alla letteratura e alla cultura indiana (il libro, tra l’altro, fu pubblicato la prima volta proprio in India, a Bombay, nel 1936) e a quella occidentale.
Allegorie kafkiane, I racconti notturni di E.T.A. Hoffmann, le paranoie lugubri di Edgar Allan Poe, il sadismo pscicologico dostoevskiano e l’autobiografico Le confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas de Quincey si miscelano in un testo violento, estremo, dirompente nella sua ritmicità e nella crescente tensione fino al climax che riporta tutto, ancora una volta, all’allucinazione continua del protagonista e alla discesa, senza ritorno, al mondo della non-soluzione.
La civetta cieca è un viaggio onirico, un incubo allucinato a occhi aperti, negli abissi della coscienza. Un miniaturista di portapenne, stravolto da oppio e alcol, rivive la sua vita, i suoi sogni, impasta i propri ricordi, agisce senza agire nel presente, annota mentalmente quello che accade fuori dalla finestra, in un vortice delirante e potentissimo tra esistenzialismo, punti di vista ottici storpiati e una visione nichilista della vita.
Sadeq Hedayat, morto suicida a Parigi nel 1951, traccia in questo romanzo senza tempo la sua visione dell’esistenza e mette su carta quelli che sono stati gli apprendimenti avuti nel liceo francese di Teheran dove ha studiato e i suoi viaggi in Belgio e Francia.
La civetta cieca poté cominciare a circolare in Iran soltanto nel 1941, dopo l’abdicazione di Reza Shah Pahlavi, e tuttora subisce una forte censura in patria.
“Nella moschea gli sceicchi si erano radunati per esaminare un oggetto trovato dai bambini del paese. Si trattava del piede sinistro di Abdullah, che mi era servito da arma. Con espressione serissima si interrogavano se il piede andasse già seppellito o se bisognasse aspettare di ritrovare l’altro. Trattandosi del piede sinistro, si decise di cercare prima il destro. Furono i bambini ad andare in cerca del piede destro di Abdullah. Li guardammo scorazzare a gruppi per il paese, sulla collina, da un ulivo all’altro, con grande irritazione di Khadrun (…) sopra l’intero paese vibrava un secondo cielo, nero di mosche. Tutti si erano rifugiati nelle case, al sicuro da quella sciagura. Solo il muezzin stava in cima alla moschea, scrutando a fatica per stabilire se fosse già ora della preghiera”.
I piedi di Abdullah, di Hafid Bouazza (traduzione di Claudia Di Palermo e Valentina Freschi; Carbonio Editore), racconta in modo diretto, con coraggio, ironia, poesia, raffinatezza e spruzzi di cinismo le contraddizioni del mondo islamico e della tradizione magrebina. Affronta temi scomodi e di grande attualità in modo originale e d’effetto.
Hafid si è trasferito ad Amsterdam e quello che ricorda del villaggio marocchino dove è nato è un brulicare disordinato di moschee, bordelli, straccioni, mendicanti, pescatori, perdigiorno. Nei suoi racconti, tenuti insieme dalla cornice del villaggio, troviamo leader religiosi costretti a vietare la vendita di cetrioli e melanzane a causa delle loro potenziali applicazioni falliche, iniziazioni sessuali, spiriti maligni, strani eroi di guerra.
Con un tratto lirico e grottesco l’autore, nato nella cittadina di Oujda, nel nord-est del Marocco e emigrato nel 1977 con la famiglia in Olanda, costruisce un viaggio nella memoria che da personale si tramuta in generale grazie alla forma-libro, regalando ai lettori un’opera di grande fascino.