Riavvolgiamo il nastro di un mese e mezzo. All’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo, nel reparto di Medicina interna del terzo piano, è ricoverata una signora. Diagnosi: scompenso cardiaco. È lì dal 12 di febbraio, il decorso dovrebbe essere breve, eppure col passare dei giorni accusa febbre. Poi problemi respiratori. Nella notte tra il 21 e il 22 dello stesso mese, la situazione precipita. Suo figlio accorre e, per la prima volta, si trova circondato da medici e infermieri con le mascherine. Sua mamma morirà alle due di notte. Camera ardente, con centinaia di persone, e funerali in paese, a Villa di Serio, in forma privata. C’è anche il papà, con l’influenza da qualche giorno, che morirà a causa del coronavirus il 13 marzo, al Papa Giovanni XXIII.
Nel Bergamasco l’epidemia di Covid-19 è esplosa, letteralmente, a fine febbraio. A oggi risulta la provincia italiana col maggior numero di contagi (8.803) in rapporto alla popolazione, nonostante i tamponi vengano fatti solo a chi ha già una sintomatologia grave; col maggior numero di decessi (2.060), sebbene sia risaputo che i report ufficiali sono largamente sottostimati; e risulta, anche, la provincia col personale sanitario più colpito. In pratica, è seconda solo a Wuhan, dove tutto è cominciato. Tra il primo decreto-legge del Consiglio dei ministri (23 febbraio) e la “chiusura” della Lombardia (8 marzo), a dispetto dei dati che crescevano senza freni, è sfumata la creazione di una zona rossa lungo l’asse Albino-Nembro-Alzano Lombardo, il focolaio bergamasco. La Regione Lombardia ha sempre sostenuto di averla chiesta al governo e che questi, però, non avesse mai risposto. La verità è che il presidente Attilio Fontana, insieme alla sua giunta, avrebbe avuto il potere di adottare misure più stringenti. Così hanno fatto, per esempio, la Campania e l’Abruzzo, con rispettivamente cinque e sei comuni; il Lazio, con il caso di Fondi; l’Emilia-Romagna, con Medicina (Bologna). Nemmeno il governo ha voluto istituire la zona rossa nel Bergamasco, preferendo estendere, a partire dall’11 marzo, la zona arancione in tutto il Paese. Detto ciò, non ci sono dubbi sul fatto che il virus circolasse nel Nord Italia già, almeno, dalla fine di gennaio. Eppure, riavvolgendo di nuovo la traccia del film, emergono scelte che ne hanno facilitato la diffusione. Scelte che, terminata l’emergenza, varrà la pena approfondire.
LA “MISTERIOSA” CHIUSURA DEL PESENTI-FENAROLI – Scendendo lungo i tornanti che collegano Selvino alla Valle Seriana, in direzione sud-ovest, sulla sponda destra del fiume Serio, si apre alla vista Alzano Lombardo. La sera del 23 febbraio, domenica, da lassù si distinguono perfettamente le luci blu montate sulle auto delle forze dell’ordine. L’ospedale è transennato, nessuno vi può accedere. Che cosa è successo di così rilevante, quel giorno, da giustificare la chiusura della struttura? Due pazienti sono risultati positivi al tampone. Nell’orario di visita, poco dopo le 13, c’è già un reparto chiuso. Quale? Proprio quello di Medicina interna, al terzo piano, dove si trovava la signora deceduta nella notte tra il 21 e il 22 febbraio. Tra i positivi c’è Ernesto Ravelli, il primo bergamasco morto ufficialmente per coronavirus, che era stato ricoverato (e poi sottoposto a intervento) lì. L’ospedale, chiuso dal pomeriggio, riapre a tarda sera. Con “nessun intervento di sanificazione” o con “uno scarso intervento di sanificazione“, come abbiamo avuto modo di ricostruire da diverse fonti del personale dell’Asst Bergamo Est, e senza un triage differenziato o percorsi alternativi di accesso al pronto soccorso. L’indomani, lunedì, le attività proseguono: prelievi, interventi in sala operatoria, visite in ambulatorio. “Nessuno ci ha detto di metterci in autoisolamento“, ci racconta l’uomo di Villa di Serio a cui è morta la mamma nella notte tra venerdì e sabato. “Non siamo stati contattati nemmeno per il tampone. Abbiamo ripreso le nostre vite, normalmente”. “Sindacati dei medici e operatori sanitari hanno chiesto chiarimenti, ma non hanno ricevuto risposte”, afferma Niccolò Carretta, consigliere regionale bergamasco del gruppo Lombardi Civici Europeisti, che oggi ha depositato una serie di interrogazioni rivolte a Giulio Gallera. “Per quale motivo la situazione, all’interno dell’ospedale, è stata sottovalutata?” domanda, “perché i medici militari sono arrivati solo dopo 20 giorni dall’esplosione dell’epidemia?”.
LA CACCIA ALLE MASCHERINE – “A Bergamo, così come a Brescia e Lodi, i dispositivi sanitari per proteggere il personale medico in quei giorni sono pochissimi“, ricostruisce Michele Usuelli, medico di Terapia intensiva neonatale e consigliere regionale di +Europa, “specialmente in quegli ospedali non abituati ad avere a che fare coi virus e privi del reparto di Infettivologia“. Il 25 di febbraio, quando l’emergenza sanitaria è già esplosa nel Lodigiano e nella Bergamasca (ed era nero su bianco dal primo del mese sulla Gazzetta ufficiale), i vertici di Regione Lombardia decidono di centralizzare l’acquisto dei Dpi tramite il braccio armato Aria spa. E a quel punto viene premuto un bel “reset” alle forniture già predisposte dalle singole aziende ospedaliere. “Da lì la palla è passata, almeno nella prima settimana, alla Protezione civile“, continua Usuelli, “con la conseguenza che reperire le mascherine è stato più complicato“.
IL GOVERNO DICE: “SEGUITE L’OMS” – Negli ospedali di Bergamo, intanto, il virus corre tra le corsie. Mentre dalle porte d’ingresso entrano ed escono persone asintomatiche, i reparti non vengono resi impermeabili. Gli stessi operatori sanitari continuano a lavorare anche se hanno influenza e tosse. Nonostante ciò, almeno in un primo momento, nei nosocomi dell’Asst Bergamo Est (il già citato Alzano Lombardo, Piario, Lovere e Seriate), grazie agli sforzi della direzione medici e infermieri del pronto soccorso dispongono delle mascherine Ffp2 e Ffp3. Dal 2 di marzo, tuttavia, le cose cambiano. Col decreto-legge n.9 il governo, all’articolo 34, stabilisce che “è consentito fare ricorso alle mascherine chirurgiche, quale dispositivo idoneo a proteggere gli operatori sanitari; sono utilizzabili anche mascherine prive del marchio CE previa valutazione da parte dell’Istituto superiore di sanità”. In pratica, da quel giorno, l’esecutivo dà il proprio assenso all’utilizzo di dispositivi, da parte del personale sanitario, che non fermano l’infezione. L’indicazione era stata data il 27 di febbraio dall’Organizzazione mondiale della sanità. Nel report intitolato Rational use of personal protective equipment for coronavirus disease 2019 (Covid-19), l’Oms sosteneva che per visitare pazienti sospetti o già risultati positivi fossero sufficienti le mascherine chirurgiche a quattro strati. La ratio dell’indicazione, sapendo che la protezione non fosse affatto garantita, era una e una sola: sapere che la produzione di Ffp2 e Ffp3, a livello mondiale, non avrebbe soddisfatto la domanda dei singoli Paesi alle prese con l’epidemia. Il risultato, come è stato spiegato a ilfattoquotidiano.it da più di un operatore sanitario, è che in molti ospedali il personale inizia a entrare in contatto coi pazienti indossando le mascherine chirurgiche. C’è di più: medici e infermieri dell’Asst Bergamo Est condividono gli spazi con colleghi positivi.
IL VIRUS IN SALA OPERATORIA – “Da noi non succede affatto”, racconta una fonte qualificata dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, dove sono ricoverati quasi 500 pazienti Covid. “Si usano le Ffp3 per le procedure che generano aerosol, le Ffp2 per le visite”. Ciò che però ha messo a rischio l’intero sistema è stata l’attività operatoria. Fino a metà marzo, infatti, veniva garantita una percentuale cospicua degli interventi. Poi, a fronte di una situazione che non accennava a migliorare, la direzione ha deciso di ridurre al minimo il ricorso alla sala operatoria. “Andava chiuso tutto subito, a eccezione delle urgenze indifferibili. Già dall’1 marzo eravamo consapevoli che fosse esplosa una bomba”. Al contrario, l’attività della sala operatoria ha aumentato le probabilità di diffusione del contagio tra i parenti dei pazienti – che entravano in ospedale – i degenti e il personale. E a proposito di precauzioni “saltate” nel corso della gestione della crisi, è emblematico il caso della tenda di pre-triage montata all’esterno tra il 23 e il 24 di febbraio: è vuota. E non è mai entrata in funzione.
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