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Coronavirus, in America Latina il dilemma tra economia e salute: per tanti la quarantena è perdere il lavoro

L'epidemia sta facendo emergere le disuguaglianze sociali che dividono la popolazione. Per Bolsonaro, che minimizza, se il Brasile si ferma diventa un nuovo Venezuela, cioè "un terreno fertile per la violenza". E dal Cile al Perù, fino a Bolivia, Brasile o Guatemala, stare in isolamento significa non avere alcuna fonte di guadagno

In Cile l’hanno chiamato il virus dei ‘fighetti’, perché i primi casi si sono avuti nelle persone che durante le vacanze estive di febbraio hanno viaggiato in Europa. Una possibilità riservata solo alla classe medio-alta. Tanto che la quarantena totale è stata disposta per sette dei municipi della capitale Santiago, che sono proprio quelli in cui vive la classe ricca e dove si è concentrato finora il maggior numero di casi del Paese. Se c’è una cosa che in America Latina sta facendo emergere l’epidemia di coronavirus sono le disuguaglianze sociali che dividono la popolazione. Dal Cile al Perù, fino a Bolivia, Brasile o Guatemala, stare in quarentena vuol dire per buona parte della popolazione che lavora in modo informale non avere alcuna fonte di guadagno o perdere il lavoro senza alcun tipo di ammortizzatore sociale, e per molti studenti che vanno nelle scuole pubbliche non avere la possibilità di partecipare a lezioni online o avere i materiali didattici, perché la maggior parte non ha il computer, una buona connessione internet e lo spazio per studiare a casa. Senza parlare poi delle cure sanitarie, visto che gli ospedali pubblici non sono in grado per condizioni, numero di apparecchiature e posti letto di far fronte ad un’epidemia delle dimensioni europee. Poche decine o centinaia i ventilatori disponibili, e in alcuni casi mancano anche le terapie di base, come l’ossigeno.

Nonostante la comunità scientifica sia convinta che la prossima ondata di infezioni sarà in Africa e Sudamerica, il brasiliano Jair Bolsonaro non ha imposto la quarantena e sono recenti le misure prese per il Messico da Andres Manuel Lopez Obrador che il 31 marzo ha dichiarato per un mese lo stato di emergenza sanitaria, chiuso tutte le attività non essenziali e invitato la popolazione all’autoisolamento in casa, precisando che non si tratta di “coprifuoco”.

Bolsonaro, dopo aver detto che il Covid-19 è poco più di un’influenza, ha ribadito che “il Brasile (che conta il maggior numero di casi nel continente ndr) non può fermarsi, altrimenti diventerà un altro Venezuela, un terreno fertile per la violenza – ha detto – La gente non ha cibo da portare a casa. Nessuno nega il problema del virus, ma abbiamo anche quello della disoccupazione”. Atteggiamenti criticati dalle associazioni sanitarie del paese e da molte autorità, tra cui il sindaco di Sao Paolo che ha invitato la popolazione a non ascoltarlo. Anche Messico e Nicaragua hanno scelto di non chiudere le frontiere aeree né di porre restrizioni all’ingresso dei viaggiatori che arrivano in aereo. Anche se per motivi diversi, entrambi sottolineano il grave impatto economico che restrizioni più rigide potrebbero avere nel paese dove la metà della popolazione vive in povertà e lavora in modo informale. In Guatemala addirittura il presidente Daniel Ortega ha convocato la marcia cittadina “L’amore ai tempi del Covid-19”, perché “il mondo intero sta affrontando la pandemia. Uniti nei quartieri e nelle comunità per prenderci cura insieme uno dell’altro”.

In Cile invece (secondo per numero di contagi dopo il Brasile) il governo ha deciso lo stato d’emergenza per catastrofe, che gli ha consentito di disporre il coprifuoco notturno (la seconda volta in pochi mesi, dopo quello deciso lo scorso ottobre durante le proteste sociali) ma ha tentennato sulla quarantena, chiesta a gran voce da buona parte della popolazione e dai movimenti femministi, che hanno proclamato uno sciopero virtuale per rimarcare come i lavoratori non debbano pagare con la loro salute per far fare soldi ai ricchi.

Le compagnie aeree, come Latam e Skyairlines, hanno già dimezzato lo stipendio dei loro dipendenti, mentre l’Ispettorato del lavoro ha emanato una circolare che esime i datori di lavoro dal pagare i lavoratori se questi non possono svolgere le loro funzioni a causa dell’emergenza sanitaria. In Bolivia invece il governo della presidente provvisoria, Jeanine Áñez, ha stabilito che potranno circolare solo i veicoli delle forze di sicurezza e sanità, che i boliviani avranno un solo giorno a settimana per uscire a fare la spesa e multe di 150 dollari per chi violerà queste misure, oltre a otto ore in cella. Verrà però consegnate a 1,5 milioni di famiglie un paniere di alimenti e prodotti di prima necessità. Anche in Perù, oltre al coprifuoco, il presidente Martìn Vizcarra ha fatto sapere che ad ogni famiglia che lavora in modo informale (si stimano siano 9 milioni) riceverà l’equivalente di 105 dollari, per cercare di compensare le perdite provocate dai 15 giorni di quarantena. Ma la sfida di scegliere tra salute ed economia, in paesi dove milioni di persone rischiano davvero di non poter mangiare se non escono a lavorare, rischia di innescare una bomba a orologeria sociale molto pericolosa per quando l’epidemia sarà passata.