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di Antonio Iusto

In questi giorni bui, forse per renderli più sopportabili, taluni sembrano indicare quale possibile esito di questa crisi una sorta di risveglio delle coscienze. La dedizione, l’impegno, la fratellanza, la solidarietà e l’eroismo che vedono tutt’intorno, unitamente alla drastica interruzione del consueto modo di vivere, li inducono a pensare che qualcosa di meraviglioso stia accadendo, che forse non tutti i mali vengono per nuocere, che forse questa è la provvidenziale scossa di cui il mondo aveva bisogno per poter virare in direzione di una forma del vivere sociale più giusto, più solidale, più sostenibile, più umano. Ci sarebbe una riscoperta delle cose davvero importanti e una riscoperta dei valori da tempo smarriti nella vorticosa, travolgente corrente che aveva investito il mondo.

Come monaci in una forzata clausura, secondo questa visione, saremmo tutti intenti a leggere, riflettere, ripensare, fare il mea culpa, interrogarci sui nostri veri bisogni. Avremmo anche riscoperto il valore delle relazioni – via web, s’intende – con amici e parenti lontani, ed assolto l’uso smodato della tecnologia da tutti i mali, utilizzandola a partire dalla video-omelia parrocchiale fino al lavoro agile, la scuola a distanza, la telemedicina etc. E così ci risveglieremmo in un mondo migliore, disinfettati dai virus biologici e finanche da quelli culturali che avevano avvelenato l’aria negli ultimi decenni.

In verità sono proprio i tempi delle emergenze, delle catastrofi e delle guerre che più facilmente favoriscono l’azione eroica e i nobili sentimenti. L’impegno si acuisce in vista del raggiungimento del comune obiettivo: salvarsi, salvare gli altri, sconfiggere il nemico. Poi, ad emergenza finita, si tende in genere a riprendere la vita di sempre, adattandosi al nuovo paesaggio, più o meno fortemente modificato dagli eventi catastrofici.

A nulla dunque vale fondarsi sui comportamenti virtuosi individuali e sociali, nazionali o internazionali, di questi giorni per prevedere scenari futuri luminosi, così come a nulla vale far da leva alla speranza adducendo a motore di una umana redenzione la paura del pericolo o la perdita delle libertà fondamentali che stiamo vivendo. E’ esperienza piuttosto comune che durante una malattia, dopo una separazione coniugale, dopo un tracollo finanziario, durante un qualsiasi evento traumatico siamo portati a dare valore a ciò che nella quotidianità precedente non apprezzavamo. E ancora per comune esperienza sappiamo che, ad emergenza superata, seppur in qualche modo segnati da essa, con il tempo tutto tende a tornare emotivamente com’era.

Ciò non vuol dire che la pletora di visioni positive e di nobili sentimenti che vediamo e leggiamo fiorire di questi tempi siano insinceri. Tutt’altro. Essi sono l’esempio tangibile che, nei momenti di eventi ed emozioni spaesanti, quali quelli dovuti alle catastrofi, le parti migliori delle persone possono emergere e ci si può scoprire più vicini, più interconnessi, più solidali; ma solo temporaneamente.

Ci si dimentica inoltre, e ciò si può spiegare solo con la confusione emotiva del momento, che parallelamente a questi lodevoli aneliti di anime pie, esistono anche le spinte, spesso determinanti, di quanti sono invece abituati a guardare ogni cosa ed evento con l’occhio del profitto e della prevaricazione, dei quali non è logicamente presumibile pensare che siano andati in vacanza né prima, né durante, né tantomeno dopo l’emergenza.

E’ probabile, indubbiamente, che si vada delineando un nuovo scenario sociale e psicologico, una significativa mutazione culturale, ma le immagini di un desiderabile e condivisibile futuro “umanistico” – tecnologicamente assistito – basate sulla percezione di quanto accade in questo momento emergenziale non possono far altro che consolare appena un poco le pene della quarantena.

Uno slogan protestava: “Fermate il mondo, voglio scendere!”. Beh, il mondo si sta fermando. Ma la strada sembra tutta in salita.

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