“Da allora non c’è stato un movimento così grosso nel rock ‘n’ roll”, diceva del grunge Scott Weiland, voce degli Stone Temple Pilots, che molti definiscono una delle formazioni più ingiustamente sottovalutate del genere. In questo senso il 5 aprile segna la fine non solo del grunge ma la scomparsa di due dei maggiori interpreti del rock moderno: quella ovvero di Kurt Cobain, leader dei Nirvana, e Layne Staley, frontman degli Alice In Chains e del supergruppo Mad Season.
Destini simili ma in qualche modo diversi quelli che avvolsero i due, scomparsi lo stesso giorno a distanza di otto anni l’uno dall’altro. Se nel 1994 i Nirvana avrebbero pubblicato, a novembre, l’ormai postumo MTV Unplugged in New York – registrato l’anno prima – gli Alice In Chains erano invece in piena attività avendo dato luce, a gennaio, all’EP Jar Of Flies, che, sempre camminando in equilibrio sulla sottile linea tra acustico ed elettrico, conteneva perle rare del calibro di “Nutshell”, “I Stay Away” e “No Excuses”.
Nel 2002, anno della scomparsa di Stayley, veniva invece dato alle stampe – neanche a farlo apposta – l’omonimo Nirvana: primo di una serie di compilation divulgate più o meno a forza, che aveva però il pregio di includere l’inedito “You Know You’re Right”, registrato durante le ultime sessioni in studio prima del suicidio. Oltre al genio, il filo rosso che tenne insieme il destino dei due fu senz’altro costituito dall’abuso e dalla dipendenza dalle droghe. Una in particolare, l’eroina.
Scappato da un ultimo disperato tentativo di disintossicazione, Cobain lasciò l’Exodus Recovery Center di Los Angeles camminando abbastanza da incrociare un taxi e decollare nuovamente alla volta di Seattle. Ironia della sorte, a tenergli compagnia durante il volo fu Duff McKagan, bassista degli stessi Guns N’ Roses che i Nirvana – e con loro la miriade di gruppi fioriti tra il finire degli ottanta ed i primi novanta – se non asfaltarono comunque ferirono a morte.
Staley, la cui notorietà non era minimamente paragonabile a quella del biondo cantante e chitarrista, a dispetto della massima di Neil Young che al fade away consigliava un più repentino burn out scelse l’oblio totale apparendo un’ultima volta in pubblico addirittura nel 1998.
Il machismo di un certo hard rock, che pure aveva avuto il merito – risorgendo sotto nuove forme – di spazzar via il peggio (musicalmente) del decennio precedente, era ciò che disgustava entrambi: per quanto, forse più di tutto, gli Alice In Chains meritassero eccome l’etichetta di band “alternative metal”. D’altra parte anche Cobain fece il suo ingresso nel music-biz come roadie dei Melvins, band dalla difficile categorizzazione, che nel 1993 arrivò addirittura a produrre con l’album Houdini.
E forse è proprio in questa veste che verrebbe da pensarli entrambi al giorno d’oggi: un passo indietro, o di lato, rispetto al clamore e all’onda emotiva del successo. Di Cobain sappiamo per certo che, almeno nelle intenzioni, avrebbe volentieri lavorato ad un album con Michael Stipe dei R.E.M. “Non sono un grande con gli eroinomani… Non posso fare molto quando entra in gioco quel livello di abuso di sostanze come accadde per lui.”, dirà anni dopo.
Ugualmente inappellabile la sentenza cui aveva deciso di sottostare Staley, che uscirà (per modo di dire) dal suo isolamento rispondendo un’ultima volta al telefono due mesi prima della scomparsa: “Il mio fegato non funziona più, vomito costantemente e mi cago addosso. È un dolore insopportabile, il peggior che si possa provare al mondo.”, disse intervistato dalla giornalista argentina Adriana Rubio – autrice del libro Layne Staley: Angry Chair. A Look Inside The Heart And Soul Of An Incredible Musician – “Sono consapevole di star morendo. È ormai da anni che vado avanti facendomi di eroina e di crack. Non ho mai voluto scrivere la parola ‘fine’ sulla mia vita in questo modo ma so di non avere più speranze. E’ ormai tardi.”. Detto, fatto: ormai decomposto, il suo corpo verrà ritrovato il 19 aprile quando – allertata da un insolito miagolio del suo gatto – la madre Nancy deciderà di chiamare il 911.
Due epiloghi certo tremendi, che spiegano però l’essenza di quella che fu la loro proposta musicale: raccontare visceralmente, bene come forse nessun altro, quel male di vivere che grattando dall’interno li aveva paradossalmente messi in contatto con milioni di persone nel mondo. Tanto da finire eletti – almeno nel caso di Cobain – a leader, rappresentanti assoluti, di quella generazione X che ora cresciuta cerca ancora risposte nelle loro canzoni immortali.