Usciremo migliori dall’incubo Covid-19? Qualcuno ne è convinto, ma in questo momento starei più attenta a non uscirne peggiorati. A non fare passi (almeno troppi) indietro. Per esempio sugli asili nido privati che, ad oggi, sono stati completamente abbandonati, tra il rebus delle rette che i genitori non dovrebbero pagare dato che il servizio è stato sospeso e le spese fisse che invece continuano ad arrivare puntuali.
In ballo ci sono due problemi: imprenditoriale per i titolari di queste strutture, oggi in ginocchio; sociale per i genitori. Perché nel nostro Paese i nidi privati non sono un lusso, ma una necessità visto che le sole strutture pubbliche mai e poi mai potrebbero coprire la domanda. Se a emergenza finita centinaia di nidi non dovessero riaprire, non ci sarebbero più posti per tutti e migliaia di lavoratori non avrebbero più un luogo sicuro dove lasciare i propri figli.
Sulla pagina Facebook di Assonidi è stato postato in questi giorni un video della responsabile della Formazione dell’associazione, la pedagogista Francesca Campolungo. Che, a un certo punto, mi ha folgorato con una frase: “Gli asili nido sono un conquista sociale”. E sono le donne, c’è poco da fare, a poter capire quanta potenza ci sia dietro questo messaggio.
Perché tantissime mamme hanno potuto lavorare soprattutto grazie all’esistenza degli asili nido. Anche quelle che non potevano contare sull’aiuto dei nonni o su una condizione economica tale da potersi permettere una baby sitter per diverse ore al giorno. Scritta diversamente: in queste famiglie, chi pensate dovrà sopperire a una eventuale chiusura in massa di asili nido? Chi dovrà rinunciare a ore di lavoro, pezzi di carriera e via dicendo? Prima di fare passi indietro, vorrei ricordare quelli fatti in avanti. In modo graduale e non ovunque, per carità. Ma comunque fatti.
Un anno fa, la Fondazione Openpolis pubblicava un rapporto (su dati 2017) che mostra come esista una relazione tra la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’estensione dei servizi per la prima infanzia. Nelle regioni in cui la presenza di asili nido e servizi integrativi per la prima infanzia supera il 33%, infatti, il tasso di occupazione femminile supera il 60%. Questo accade in Valle d’Aosta, Umbria, Emilia Romagna e Toscana.
Parallelamente, le regioni con meno donne che lavorano coincidono con quelle dove i servizi per la prima infanzia sono meno sviluppati: Campania, Sicilia, Calabria e Puglia. E c’è una doppia lettura: se carenza o assenza di nidi in alcune aree del Paese non costituiscono di certo un incentivo al lavoro femminile, è anche vero che in quelle dove c’è una maggiore occupazione delle donne la domanda di posti in asilo nido è più forte.
Il divario, d’altronde, non è solo quello tra Nord e Sud. Basti pensare che in Francia, tanto per fare un esempio, lavora il 59,1% delle donne con tre o più figli contro il 57,8% delle donne italiane con un figlio solo. Non a caso già nel 2002, le conclusioni del Consiglio europeo di Barcellona insistevano sul potenziamento dei servizi prima infanzia per facilitare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Sono passati 18 anni. Cerchiamo di non uscirne peggiorati.