Dal 1° maggio 2020 entrerà in vigore l’ennesima riforma delle intercettazioni telefoniche e ambientali, uno strumento investigativo indispensabile per contrastare con efficacia i delitti più gravi come la corruzione e i reati di mafia. Uno strumento che all’estero ci invidiano, ma che da noi è oggetto di periodiche rivisitazioni.
Ebbene, saremo in grado di giudicare sulla bontà della nuova normativa tra qualche anno, quando scopriremo gli eventuali vantaggi della sua applicazione. L’aspetto che intendo qui evidenziare è invece legato a quella modifica della disciplina delle intercettazioni, proposta in Parlamento ma per fortuna non approvata per palmare illegittimità costituzionale.
La “normetta” prevedeva che l’ufficiale di polizia giudiziaria non dovesse più annotare, neppure per sintesi, quelle conversazioni che gli sembrassero irrilevanti. Eppure l’esperienza investigativa mostra come capiti molto spesso che captazioni che appaiono irrilevanti nel momento in cui si svolgono le indagini tecniche assumano, anche dopo molti anni e alla luce di nuovi elementi, un carattere importante, vuoi a conforto delle tesi dell’accusa, vuoi a favore dell’imputato.
La novella avrebbe così tolto al pubblico ministero e ai difensori la possibilità di utilizzare un’intercettazione la cui rilevanza fosse emersa in una fase successiva. Si sarebbe trattato di un grave passo indietro, sia per l’efficacia delle indagini, sia per le garanzie difensive. Ma l’altra conseguenza, altrettanto allarmante, sarebbe stata quella di sottrarre, per legge, all’autorità giudiziaria il potere di valutare la rilevanza delle conversazioni registrate e di attribuire inspiegabilmente questo vaglio agli organi di polizia giudiziaria, strutturati in una scala gerarchica che dipende dal potere esecutivo. In questo modo la riforma avrebbe intaccato il fondamentale principio della separazione dei poteri, del potere giudiziario da quello esecutivo.
Ogni occasione è buona per colpire subdolamente, con bizzarre regole di procedura, i principi costituzionali di autonomia della magistratura (art. 104 Cost.), di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) e di dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria (art. 109 Cost.).
Un altro tentativo ci fu nel 2016. Ve lo ricordate? Allora qualcuno inserì di soppiatto – a Ferragosto, per la precisione – nella già sciagurata norma sulla militarizzazione del Corpo Forestale un curioso obbligo, valido per tutta la polizia giudiziaria, di informare i vertici gerarchici delle indagini in corso delegate dalla magistratura. Quella regola, incostituzionale perché palesemente lesiva del segreto investigativo, fu cancellata due anni dopo dalla Corte costituzionale.
Insomma è chiaro: c’è chi vuol dare la possibilità di intervenire nella condotta delle indagini a soggetti privi delle qualifiche di polizia giudiziaria e, per la loro posizione apicale, strettamente legati al potere esecutivo, aprendo così la strada a patologie facilmente prevedibili.
Sul tema, più di qualsiasi manuale, sarebbe utile rivedere l’ultimo capolavoro di Roman Polanski, “L’ufficiale e la spia”, che ci racconta come, nel caso Dreyfus, i vertici militari francesi, invece di ricercare la verità, fossero solo ansiosi di punire un ebreo per compiacere una certa parte politica.
Lo scopo di queste scorribande parlamentari è evidente: si vogliono creare le condizioni più favorevoli per interferire nelle indagini preliminari e difendere i potenti dal processo penale, con buona pace dell’art. 3 della Costituzione. Cleto Iafrate, esperto di diritto militare e pioniere del sindacato militare, lo ripete senza sosta da anni.
A Varsavia, l’11 gennaio scorso, anche la nostra Associazione Nazionale Magistrati è scesa in piazza per protestare contro una riforma che metterebbe la magistratura polacca sotto il controllo del governo. Questo è esattamente lo stesso sogno coltivato in Italia da un ampio fronte politico trasversale. Certo, sarebbe bello se queste pericolose istanze reazionarie venissero contrastate con una virtuosa convergenza tra magistrati e sindacati della polizia giudiziaria.
La Costituzione e la democrazia vanno difese con tenacia. E vanno tutelati tutti quei pm, quei poliziotti e quei giudici che ogni giorno, in silenzio e con grande sacrificio, offrono il loro prezioso contributo perché la legge sia davvero “uguale per tutti”.