In questa intervista di Gino Strada sono esposte le priorità e i principi che dovrebbero ispirare la sanità pubblica e che non abbiamo seguito. Va chiarito che i poteri pubblici (ovvero la politica), regolamentando le attività sanitarie per se stessa e per i privati, hanno favorito la sanità privata perché garantiva “ritorni” di consenso più importanti. La cessione di interi settori della sanità ai privati attraverso gli accreditamenti di istituti di ricovero a carattere scientifico si è allargata sempre più per incrementare un perverso meccanismo di potere e clientela, soprattutto in Lombardia.
I privati sono stati incentivati dal regolatore pubblico (nonché acquirente dei servizi sanitari), la Regione, per aumentare la sfera di controllo politico sulla sanità, che è il primo capitolo della spesa regionale. Si è così sabotata la prima linea dei medici di base, costringendo i cittadini a ricorrere sempre di più agli ospedali e al pronto soccorso. La spesa per la sanità è cresciuta, spostandosi da quella pubblica a quella privata e ora ne paghiamo le conseguenze. Infatti nell’ultimo decennio siamo passati da una spesa complessiva annua di 71,3 miliardi di euro nel 2001 a 114,5 miliardi nel 2019. La spesa però ha coperto poco più della metà (0,7%) del tasso d’inflazione medio annuo (1%).
Il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) non è cresciuto a sufficienza per evitare i tagli al personale. Anche se il numero dei medici è rimasto invariato esso ha subito una lieve flessione in rapporto alla popolazione che è invece cresciuta. In questo decennio non si sono tagliati sprechi e inefficienze e neppure si è “spostata” la spesa verso gli over 65 che sono aumentati di un terzo in 10 anni.
Se con l’8,9% di spesa sul Pil siamo leggermente più bassi di francesi e tedeschi siamo però sopra la percentuale di Spagna e Gran Bretagna. Non va dimenticato che la sanità è degradata anche dove non si è “pompata” l’alternativa privata, come al Sud: anche qui le ragioni della crisi sono da ricercare nella nomina politica dei direttori generali degli ospedali, che ha premiato l’affiliazione al posto della competenza, nell’ostinarsi a non cambiare il modello universitario (e relative baronie), e nelle forche caudine della specializzazione e dell’esame di stato che immettono i nuovi medici nel sistema molto oltre i 30 anni, provocando l’invecchiamento dell’età media degli organici e – come vediamo tristemente oggi – la carenza di personale.
La chiusura massiva dei piccoli ospedali generalisti doveva essere scambiata con il rafforzamento di presidi ambulatoriali più diffusi nel territorio, visto che con il costo di un piccolo ospedale si finanziano 50 ambulatori. La responsabilità principale della fragilità del sistema è quella dei bilanci pubblici nazionali e delle regioni, che nell’incapacità di ridurre i costi della politica, della burocrazia e delle prebende urbi et orbi (compresi i troppi incentivi inutili a troppe categorie) hanno trovato più semplice lasciare a se stesse (senza obiettivi di prospettiva socio-sanitaria) le voci di spesa più rilevanti e più strategiche di uno Stato democratico: la sanità, la ricerca e l’istruzione. E’ così che l’Oms può accusare il nostro governo di non aver dato priorità alla spesa sanitaria.