“Il coronavirus è meglio, qui nel frattempo moriamo di fame. Lasciateci lavorare”. Sono le parole di una donna che ha deciso di violare l’isolamento e manifestare insieme ad altri abitanti del suo quartiere per denunciare l’esaurimento degli stock di beni di prima necessità. È accaduto lunedì scorso a Mnihla, nella periferia di Tunisi. Qualche giorno prima, secondo i quotidiani locali, poco lontano due persone hanno tentato il suicidio a causa delle condizioni insostenibili dovute all’isolamento totale imposto dal governo tunisino il 20 marzo per frenare i contagi.
Secondo i quotidiani locali, 2,4 milioni di persone nel Paese rischiano di esaurire rapidamente le proprie risorse. Un problema che non riguarda soltanto i disoccupati. Il 44% dei lavoratori tunisini non ha un contratto regolare che lo protegge: senza uno stipendio mensile, interrompere la propria occupazione quotidiana significa quindi rinunciare alla spesa. Dal 1 aprile, lo Stato si è impegnato allora a versare alle famiglie bisognose 200 dinari – neanche 65 euro – per sopravvivere durante la quarantena. Nella città di Jendouba, in una delle regioni più povere del Paese, in centinaia si sono ammassati di fronte all’entrata degli uffici violando le misure precauzionali per ricevere le sovvenzioni.
Così, mentre aumentano gli appelli a restare a casa sui social network, si moltiplicano le immagini di cittadini in coda per gli aiuti. La quarantena mette a nudo le disuguaglianze sociali e territoriali che, dopo aver portato alla rivoluzione del 2011, continuano ad aumentare in uno dei paesi più poveri del Nord Africa. Secondo un rapporto della Banca Mondiale pubblicato a febbraio 2020, 1,7 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, 500mila con solo 4 dinari al giorno (poco più di 1 euro). Il coronavirus, allora, fa paura a chi può permetterselo. Ma con circa 600 casi di Covid-19 nel Paese, 300 posti letto in terapia intensiva negli ospedali pubblici e tredici regioni senza reparti adeguati, il governo guidato da Elyes Fakhfakh ha comunque deciso di prolungare l’isolamento totale fino al 20 aprile. Con il rischio che le manifestazioni si moltiplichino.
Da quando sono stati registrati i primi casi importati dall’Europa, ormai un mese fa, il numero dei contagi continua a crescere a sud del Mediterraneo: il Sud Africa (1.655), l’Egitto (1.173), l’Algeria (1.423) e il Marocco (1.113) sono i Paesi che registrano il maggior numero di casi ufficiali nel continente africano. Cifre che sembrano ancora basse se confrontate con quelle europee, ma che rischiano di portare rapidamente al collasso i fragili sistemi sanitari della zona. In Marocco, uno dei primi Paesi a sospendere tutti i voli internazionali quando contava ancora solo una ventina di casi, una paziente ha sfidato la versione ufficiale filmando le condizioni catastrofiche dell’ospedale in cui si trova ricoverata per Covid-19, nel nord del paese. Dieci mesi fa, 305 medici si sono licenziati collettivamente per denunciare la situazione della sanità marocchina.
Emergenza e repressione
Tra i vari video di denuncia pubblicati sui social, circola anche quello di un medico algerino che, in lacrime, racconta di esser stato costretto ad intubare un giovane “senza maschera né guanti” per mancanza di materiale. Per evitare scandali, il governo ha allora imposto il divieto di filmare negli ospedali del Paese. Come scrive un attivista, l’emergenza Covid-19 rivela non soltanto le lacune del sistema sanitario, ma più in generale la difficoltà di accettare misure imposte dall’alto quando i cittadini non hanno fiducia nelle istituzioni che rappresentano un potere autoritario. È così che in Algeria la crisi sanitaria si è trasformata in controrivoluzione.
Per evitare i contagi, i manifestanti dell’Hirak (come viene chiamato il movimento di protesta) hanno dovuto rinunciare a scendere in piazza ogni venerdì autoimponendosi l’isolamento che il presidente Abdelmadjid Tebboune ha ritardato a mettere in atto. Il governo ne ha allora approfittato per arrestare e processare attivisti e giornalisti, come il giornalista Khaled Drareni per aver “attentato all’integrità del territorio nazionale” o a Karim Tabbou, oppositore politico e figura di riferimento della protesta, a cui non è stato permesso di assistere al suo stesso processo. “Mentre diversi governi in tutto il mondo rilasciano prigionieri per ridurre il rischio di diffusione di Covid-19 nelle carceri, l’Algeria continua ad incarcerare dissidenti politici”, ha denunciato Human Rights Watch.
Il regime algerino ha decretato inoltre che chi rimetterà in discussione le informazioni ufficiali sui contagi da Covid-19, per molti sottostimati, rischia una condanna per attentato alla sicurezza dello stato. Lo stesso accade in Egitto, dove Abdel Fattah Al-Sisi ha reso inaccessibili nuovi siti d’informazione che si aggiungono ai più di 500 censurati nel Paese: chi diffonde informazioni non ufficiali sulla pandemia si espone al carcere. La corrispondente del quotidiano britannico The Guardian è stata recentemente espulsa per aver messo in discussione il numero dei contagi, anche qui sottostimati. Più di 1.800 persone sono poi state arrestate per aver violato il coprifuoco, mentre si temono nuovi contagi nelle carceri del Paese in cui sono rinchiusi anche i prigionieri sottoposti a custodia cautelare. “Liberateli, le carceri sono focolai di contagio”, hanno chiesto le quattro attiviste arrestate e poi rilasciate il 20 marzo scorso. Tra loro Laila Soueif, madre del prigioniero politico Alaa Abdel Fatah, e Rabab al-Mahdi, la tutor di Giulio Regeni in Egitto. Anche l’udienza di scarcerazione per Patrick George Zaki, arrestato il 7 febbraio febbraio, è stata nuovamente rimandata di una settimana “a causa del coronavirus”.