Sulla mancata "chiusura totale" a Nembro e Alzano Lombardo per l'allerta Coronavirus, sia il governo, sia la giunta lombarda utilizzano la stessa argomentazione: il caos dei primi di marzo è stato "sanato" pochi giorni dopo con la creazione di una zona rossa in tutta la regione. Non è così, la differenza riguarda soprattutto le imprese. A spiegarla, a ilfattoquotidiano.it, è il sindaco di Codogno: "Tra i due Dpcm c'è un abisso"
La vita di 50mila persone, all’improvviso, rimane sospesa. È il 23 febbraio. Per strada non c’è nessuno: le poste sono chiuse, le scuole sono chiuse. I lavoratori non escono di casa, perché fabbriche e aziende hanno i cancelli sbarrati. I dieci comuni del Lodigiano, primo focolaio del coronavirus insieme a Vo’ Euganeo, sono tagliati fuori persino da autobus e treni: è l’inizio, ufficiale, della zona rossa.
Ora spostiamo le lancette avanti di tre settimane. Fondi (Latina) e Medicina (Bologna) sono appena diventate zona rossa su ordine dei rispettivi presidenti di Regione, mentre nelle case degli italiani entrano le immagini dei camion dell’esercito che sfilano per le strade di Bergamo carichi delle decine di bare che in città non trovano più posto. Da questo momento iniziano le prime accuse su chi avesse la responsabilità di adottare misure più stringenti nel peggior focolaio Covid d’Italia: Nembro e Alzano Lombardo, in Valle Seriana. Cominciano sindaci e politici locali, poi via via si va sempre più su. Finché l’assessore al Welfare, Giulio Gallera, non punta il dito contro il governo: “L’avevamo chiesta, ma da Roma non è arrivata la decisione“.
Lo scambio di accuse prosegue sino a oggi. Con un grosso equivoco, bipartisan. Per le due parti in causa (Giuseppe Conte da una parte, Attilio Fontana e Gallera dall’altra) nessuno è veramente responsabile del mancato provvedimento perché dall’8 marzo, con l’entrata in vigore del Dpcm, “tutta la Lombardia è diventata zona rossa“. Lo ha ripetuto più volte Conte (ancora lunedì in conferenza stampa). Lo ha confermato stamattina l’assessore lombardo: “Il governo ha deciso di fare la zona rossa in tutta la regione” perciò – è il ragionamento – la Giunta a trazione leghista non avrebbe insistito con l’adozione di misure più stringenti perché a quel punto “c’è stata una strategia diversa, più ampia, che noi abbiamo condiviso assolutamente”. Fontana si è spinto pure oltre: “Dopo che è stata istituita una zona rossa, non avevamo neanche da un punto di vista giuridico la possibilità di intervenire”.
L’equivoco, però, è presto sciolto. Perché dall’8 marzo la Lombardia – così come il resto d’Italia a partire dall’11 – non è mai diventata zona rossa. Semmai, zona arancione. E non è una questione linguistica, bensì di sostanza. Col Dpcm del 25 di febbraio che interessa il Lodigiano e Vo’, infatti, c’è “la chiusura di tutte le attività commerciali”, la sospensione “dei servizi di trasporto di merci e di persone, terrestre, ferroviario”, “la sospensione delle attività lavorative per le imprese” e “la sospensione dello svolgimento delle attività lavorative per i lavoratori residenti o domiciliati, anche di fatto, nel comune o nell’area interessata, anche ove le stesse si svolgano fuori dal Comune o dall’area indicata”. In pratica, gli undici comuni sono sigillati. E le imprese – questo è un punto fondamentale – vengono fermate. “Tra i due Dpcm c’è un abisso – conferma il sindaco di Codogno, Francesco Passerini – qui avevamo la chiusura totale, senza se e senza ma. Tanto che con l’entrata in vigore del provvedimento dell’8 marzo, che cancellava di fatto la nostra zona rossa, eravamo preoccupati. Lo ritenevamo un alleggerimento e temevamo che i contagi potessero ripartire”. Dal 21 febbraio al 7 marzo, circa 3400 attività produttive restano al palo.
Si può dire che sia accaduto lo stesso per il resto della Lombardia o, più nello specifico, per quel tratto di Bassa Valle Seriana, tra Nembro e Alzano, con 400 aziende, 3.700 dipendenti e 680 milioni di euro all’anno di fatturato? No, perché per una prima stretta sulle industrie bisognerà attendere il 22 di marzo (con la modifica, tre giorni dopo, su quali attività fossero ritenute essenziali). E al di là dei provvedimenti emanati dal governo, la Regione Lombardia poteva fare qualcosa per chiudere il focolaio bergamasco? La risposta è sì. Lo poteva fare in virtù dell’art.32 della legge n.833/1978, dell’art. 117 del d.lgs n.112/1998 e dell’art. 50 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali. Tutta materia giuridica richiamata non a caso dal governo nel decreto-legge del 23 febbraio sull’emergenza coronavirus. E ribadita dallo stesso Conte nella conferenza stampa al dipartimento di Protezione civile il giorno precedente: “Con il decreto le autorità locali potranno prendere iniziative, qualora lo ritengano, sulle restanti aree (a esclusione dei dieci comuni del Lodigiano e di Vo’, ndr)”. Tra zona rossa e arancione ci sono scale infinite di colori. In questo caso, bisogna dirlo, c’è anche quella del grigio.
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