Il richiamo insistente per combattere il Coronavirus è alla “responsabilità”. Termine che genera istintiva diffidenza, essendo tra i più ambigui nel linguaggio della politica. Essere “responsabili” ha significato ammettere che avevamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità (gli insegnanti sottopagati? Le commesse obbligate a lavorare la domenica?) e accettare di essere licenziabili senza giusta causa, di andare in pensione più tardi, di tagliare i posti letto negli ospedali. Chi protestava per i tagli alla spesa pubblica veniva tacciato di essere irresponsabile da parte degli stessi che oggi invitano a fare debito pubblico.
Ora veniamo “responsabilmente” invitati a tappare i bambini in casa mentre milioni di persone, come spiega Paola Zanca, continuano ad assembrarsi nei magazzini e nelle fabbriche che dovevano fermarsi tutte o quasi ma restano aperte tutte o quasi. Soprattutto nelle zone più colpite dai contagi.
Solo nella provincia di Brescia, le autocertificazioni che gli imprenditori inviano alla prefettura per continuare a produrre sono 350 al giorno. Per non sospendere l’attività basta inviare la mail, in attesa di un improbabile rifiuto. A esaminare le richieste ci sono 10 persone. “È già un miracolo che ne abbiano istruite 625. Un ottavo delle quasi 5 mila arrivate dalle attività essenziali. Poi hanno dato il via a 18 delle 724 richieste degli impianti a ciclo continuo e vagliato 150 delle 413 dal comparto Difesa”. Esatto, perché, mentre teniamo chiusi in casa i bambini spediamo gli operai a produrre i cacciabombardieri tornado. Tradotto: impossibile vagliarle tutte.
Nell’attesa si lavora come se il virus non fosse in circolo: “15mila le deroghe in Veneto, 3800 solo nel Padovano; 1900 a Bergamo”. Il trucco è cambiare in corsa il codice Ateco per rientrare tra i produttori di beni essenziali o produrre centinaia di beni tra i quali uno solo essenziale o, banalmente, di contare sull’assenza di controlli e di denunce da parte dei lavoratori: una certezza nelle aziende prive di rappresentanza sindacale come quelle bergamasche, nel 94 per cento dei casi con meno di 9 dipendenti.
Deve essermi sfuggito un richiamo accorato alla “responsabilità” delle imprese, principali vettori di diffusione del virus tra i lavoratori e i loro familiari. Mentre si moltiplicano i moniti al cittadino, alle imprese è concesso di assembrare operai senza dotarli di mascherina, poiché il protocollo impone di fornire gli strumenti di protezione solo se l’attività non possa svolgersi a distanza di un metro, distanza che tutti gli scienziati concordano nel ritenere insufficiente nei luoghi chiusi.
Le stesse imprese che hanno sempre beneficiato di contributi e sgravi indiscriminati, a prescindere dal proprio valore sociale: non si distingue tra imprese che inquinano e imprese che no, ditte che tutelano i lavoratori o che invece li ammassano nelle tendopoli. Gli aiuti economici vengono elargiti a prescindere dai bisogni e dalle possibilità: si tassano con la stessa aliquota i redditi delle piccole aziende che annaspano e quelli delle grandi imprese (l’Ires, l’imposta sul reddito delle società non è progressiva: è una flat tax). Le prime lottano per la sopravvivenza e le seconde si arricchiscono, spostando con disinvoltura la residenza fiscale nei paradisi come l’Olanda che oggi voltano le spalle all’Italia.
In attesa che il monito alle imprese si faccia insistente come quello ai cittadini, cominciamo noi. Facciamolo nel nostro parlare ai figli quando spieghiamo loro il perché dello stare case a casa. Diciamogli che ci sono milioni di lavoratori – spesso compresi mamma e papà – obbligati a lavorare perché si può rinunciare a giocare al parco e andare a scuola ma non a produrre la ricchezza che, nel paese più diseguale d’Europa, finisce quasi tutta nelle tasche di pochi. Facciamolo pubblicando le foto degli operai che assemblano armi invece che degli anziani sorpresi a passeggiare. Esigiamo che gli aiuti economici stanziati per affrontare l’emergenza siano sottoposti a valutazioni d’impatto sociale, come suggeriscono 60 associazioni coordinate da Stop-Tipp. Assicuriamoci che i soldi accordati alle imprese inneschino la transizione ecologica, vincoliamo gli investimenti al rafforzamento dei servizi pubblici e al miglioramento delle condizioni di lavoro: “Non accettiamo passivamente soluzioni securitarie non bilanciate da misure altrettanto energiche di prevenzione e cura”.
Chiediamo che a pagare sia chi ha inquinato, come fa la petizione di EcoLobby, togliendo i 20 miliardi di sussidi a petrolio, gas e carbone. Richiamiamo alla “responsabilità” anche i politici e le istituzioni europee, responsabili di aver costruito una “unione” con strumenti che servivano a dividere e mettere in competizione. È colpa di chi ha accettato con enfasi le condizioni-capestro di questa falsa “unione” se oggi i governi non possono proteggere adeguatamente i cittadini ma solo le imprese (private) offrendo garanzie per indebitarsi presso banche (private), in assenza di una banca centrale pubblica che consenta allo Stato di indebitarsi.
Tutti gli Stati alle medesime condizioni e non i più i forti a condizioni di vantaggio, arricchendosi a spese dei poveri anche durante una pandemia.