Chi scrive insegna da sempre al Liceo Classico, peraltro in una zona socialmente privilegiata di una grande città (Roma). Da noi la didattica a distanza ha funzionato praticamente da subito; i nostri studenti sono in possesso di dispositivi vari, il che ha evitato anche il problema di non sovrapporre le lezioni all’eventuale lavoro da casa dei genitori o alle necessità di altri fratelli; le loro abitazioni sono abbondantemente servite da connessioni efficaci; la motivazione allo studio è raramente discutibile.

Ma per abitudine e pratica politica so che questa non è che una realtà molto molto parziale. Lo conferma un intervento di Avvenire, che dà consistenza alla mera ratifica dei numeri (il Miur informa che il 6% degli studenti italiani, ovvero 500mila, non sono raggiunti da alcun servizio). Si tratta di figli di famiglie disagiate o disagiatissime, spesso migranti, spesso lasciati soli a casa o con adulti non in grado di aiutarli, il 46privo di PC o tablet, il 51% di accesso ad Internet. Oltre un quarto degli italiani vive inoltre in sovraffollamento abitativo, rileva l’Istat, e la quota aumenta al 41,9% per i minori. Le case italiane, poi, in media misurano 81 metri quadrati, contro i 112 della Francia e i 109 della Germania. E’ per questo e per altre motivazioni (contrattuali e non) che la didattica a distanza non può e non potrà mai essere “didattica ordinaria”, come affermato nel decreto licenziato dal governo.

Se non partiamo da queste condizioni, rischiamo di omettere una parte importantissima del problema.

Tra le cose che il Coronavirus ci ha insegnato, è che la scuola a distanza non è la scuola della Repubblica (si veda a proposito la posizione congiunta e articolata di alcune associazioni della scuola): quella che “rimuove gli ostacoli”, quella “aperta a tutti”. Al contrario, è la scuola dell’esclusione, dell’accesso strettamente vincolato alle condizioni socio-economico-culturali delle famiglie di appartenenza. Mai come in questo caso ci appare chiaro come solo la scuola intesa come edificio scolastico, e perciò come luogo di incontro, di relazione, di cura sia l’unica dimensione realmente in grado di produrre sapere significativo ed emancipazione. Il Coronavirus non è, come si è detto da altro punto di vista, democratico con gli studenti: enfatizzando le diverse, annulla la pari opportunità configurate dalla scuola pubblica, laica, pluralista, inclusiva.

Che cosa, in questo contesto e nella condizione di arretramento tecnologico in cui versa il Paese, avrebbe potuto prevedere il decreto legge? Nulla più di quanto già ampiamente anticipato dalle consuete indiscrezioni: una data spartiacque – il 18 maggio – che renderà possibile o meno la riapertura della scuola e, con essa, un certo tipo di provvedimenti relativi alla conclusione dell’anno scolastico e alle prove di esame, che si svolgerebbero in maniera più tradizionale; o, invece, nella malaugurata ma purtroppo molto probabile ipotesi che le scuole non riaprano, altri provvedimenti sugli stessi e temi (compresa la previsione della cancellazione dell’esame di III media e di una visione iper ridotta di quello di scuola secondaria di II grado) e un possibile tentativo di recupero a partire dall’1 settembre.

L’alea Coronavirus, dunque, ha giocato un ruolo importante nella redazione del provvedimento, nel quale si riserva uno spazio importante al tema della valutazione. Nonostante un accorato appello che alcuni docenti e associazioni della scuola le hanno rivolto, il ministro Lucia Azzolina ha deciso di prevedere – in maniera piuttosto ossimorica – una valutazione seria (che comprenda anche la partecipazione attiva alla didattica a distanza, nonostante le condizioni cui si accennava) che però dispone la promozione degli studenti.

Le contestazioni rispetto a questa prescrizione sono molteplici. Innanzitutto la mancanza di tempestività: considerati gli sforzi consistenti che moltissimi insegnanti e moltissime famiglie stanno facendo per mantenere attivo il canale della comunicazione e dell’impegno, perché anticipare un esito che da una parte depotenzia il lavoro degli insegnanti, dall’altra disincentiva lo sforzo degli studenti e – aggiungo – deresponsabilizza le famiglie meno presenti e attente al percorso scolastico dei propri figli? Perché farlo a quasi 3 mesi dalla chiusura dell’anno scolastico, qualsiasi essa sarà? Perché non accordare alle scuole e ai docenti, nell’esercizio della loro libertà di insegnamento, la capacità professionale di portare avanti un lavoro (come in moltissimi stanno facendo) e tirare le somme alla fine di un percorso? Il fatto che il Miur sia intervenuto ha fatto pendere il piatto della bilancia più dalla parte del sempiterno terrore dei ricorsi, soprattutto nelle maglie di una situazione così inedita, che della doverosa difesa della dignità del lavoro dei docenti e soprattutto del diritto allo studio degli studenti.

E’ un errore; tanto più se si fanno i conti con il riemergere di focolai non di Coronavirus, ma di pervicace volontà di smantellamento della scuola della Costituzione. E’ il caso di Valentina Aprea, oggi responsabile scuola di Forza Italia, un tempo assessore all’Istruzione della giunta lombarda di Formigoni (Lombardia tra i capofila delle richieste di autonomia differenziata), che – con la scusa della pandemia – ritira fuori l’antica richiesta di abolizione del valore legale del titolo di studio. O, ancora, il caso dei soloni di turno, che hanno ricominciato ad imperversare raccontando una scuola “peso morto” della società, spesso non tentando nemmeno di nascondere lo sconcertante sospetto (date le circostanze e dato anche l’impegno che in tante/i stanno profondendo) che i docenti – proverbiali scansafatiche e fannulloni – in fondo stiano approfittando di questa imprevista “vacanza”.

Tale irresponsabile narrazione (trasmessa solo pochi giorni fa da Maria Latella ai microfoni di Radio 24 e non solo), si salda con quella cavalcata più di un decennio fa, nella fase pre-Brunetta, da editorialisti (Galli della Loggia, Ichino, Giavazzi) impegnati a comporre l’identikit del docente sgangherato, assenteista, incompetente, invitando così l’opinione pubblica a buttare il bambino con l’acqua sporca; vale a dire la scuola pubblica e tanti docenti capaci assieme ai pochi indegni di svolgere la nostra professione.

Se invece c’è una cosa che dimostra oggi la categoria dei docenti è il grande attaccamento ai bambini e ragazzi, alla propria professione e alla cultura, la dedizione ben oltre gli stretti doveri, indipendentemente dalla sostanziale assenza di indirizzo prima del decreto e dei limiti del decreto stesso. Ed è su questo che si potrà contare per le battaglie che già si annunciano.

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