di Flavio Lo Faro
Sto leggendo in questo periodo Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Avevo da poco finito di leggere Niente di nuovo sul fronte occidentale. Non so perché ma, in questo periodo di clausura forzata, sento l’esigenza di approfondire il dolore, di immergermi nella solitudine altrui, quasi non riuscissi a spezzare la mia. Almeno, mi dico, un appiglio per darmi forza lo trovo in altri.
Non sono abituato, come tanti di noi, alla angoscia diffusa, dispersa ai quattro venti, invisibile ai nostri occhi, così come lo siamo noi, in questo momento, a noi stessi. E vivere è diventata cosa dura. Non è la guerra, non è la fame, mi dico e mi ripeto, bisogna esser forti, ma a conti fatti ognuno trascina su di sé un peso e forse le mie spalle, e quelle di altri, non hanno così tanta forza come chi è abituato alla tragedia quotidiana, come lo erano forse i nostri nonni.
La madre di un amico, all’inizio della quarantena, ha detto al figlio “Io in cortile avevo i nazisti”. A vivere così, certo, ci vuole tanto coraggio. Mi spalleggio pensando a chi sta e stava peggio, a chi è senza una lira, a chi subisce violenze domestiche e, in maniera contraddittoria, mi isolo sempre più, in una autarchica compromissione all’empatia. Non mi ascolto più, ne ho paura, e immagino capiti ad altri.
Un mio vicino di casa, che abita nel palazzo di fronte, al mattino presto apre la porta finestra a persiana. E lo fa correndo, sarà tre metri circa, sul ballatoio, per poi tornare dentro casa sempre sgambettando. Lo vedo ogni mattina, verso le sette e mezza, perché anche dormire è diventata cosa dura, nonostante si possa e nonostante il nuovo giorno, come i precedenti e i futuri, non prometta chissà quali cose da fare. Avrei voluto anch’io un ballatoio, per far ché non lo so, ma lo avrei voluto per poter sgambettare come lui. Altri miei vicini litigano dalla mattina alla sera, altri puliscono, altri ancora annaffiano piante, e tutti a pensare cosa fare per vivere perché, senza quel pensare a fare, vivere non avrebbe la forma dell’ieri.
In questi giorni di chiusura un sentimento nuovo mi si è affacciato dentro: una acrimonia verso i cinesi, anzitutto, perché ci hanno costretti a questa chiusura. Ma ovviamente non è colpa loro, anche se potevano almeno dirci la verità. Ma non ha senso quest’ultima cosa, è una stronzata, non hanno colpe. Ma che colpe dovrebbero avere, sto impazzendo, mi dico. Tutti le hanno ed è inutile arrabbiarsi tra di noi. Poi penso all’Europa: avrò detto mille volte in questi giorni “dannati tedeschi e olandesi”, avrò mille volte maledetto l’Europa, nonostante io sia europeista.
Questa quarantena sta risvegliando in me sentimenti nuovi che non avrei voluto provare. Ogni tanto controllo le pagine dei maggiori quotidiani tedeschi e olandesi e guardo i commenti, affidandomi al traduttore di Facebook: spero che l’opinione pubblica di quei paesi sia con noi. Non sono il solo a farlo: anche altri italiani lo fanno. Attendiamo tutti la manna dal cielo, il verdetto di quei giudici, quasi fosse un reality o una sentenza verso il penitente bisognoso.
In quei commenti olandesi e tedeschi ricerco il mio tozzo di pane per il futuro, perché da soli non penso ce la faremo. Il canto ai balconi è terminato, il primo aprile ho compiuto 28 anni e, a oggi, al domani non riesco a pensare: trovare lavoro mi sembra complicato, ancor più di ieri, prima della quarantena.
Mi hanno chiamato in molti amici e parenti lontani. C’è chi mi chiede se sia tornato in Sicilia o sia rimasto al Nord e, con appiglio fiero, quasi patetico, dico loro che per senso di responsabilità sono rimasto qui e che ci rimarrò anche in estate. Sono un untore, anche se non ho alcuna certezza di esserlo né ho avuto l’influenza, ma potenzialmente forse lo sono e la mia isola fragile non deve rischiare per causa mia, questo mi dico.
Sento i miei amici medici e infermieri, molti nelle regioni più colpite: hanno avuto tempo per farmi gli auguri, nonostante tutto. Li invidio e mi sento un egoista, perché loro non si stanno mica divertendo a guardare cadaveri e famiglie spezzate. Ma fanno qualcosa almeno: uno di loro, su Facebook, ha scritto che i più pigri, oggi, rimanendo a casa sul divano, possono salvare vite e che mai potrebbe ricapitargli nella vita.
Vorrei sentirmi eroe, o almeno utile, e mentre dentro di me so che sto facendo il mio dovere, dall’altra parte sento che vorrei fare di più, far fruttare qualcosa di questi 28 anni di vita. Mi rimbalza nuovamente l’idea che sarebbe stato più saggio fare il medico, anziché studiare filosofia; a sentirsi inutili, oggi, qualcosa dentro di te cambia e forse per sempre. L’impotenza si presenta in una veste nuova e forte, tra le quattro mura di casa: i miei tentativi ginnici mi condannano al tempo, che passa quando dice lui e che, sempre più, lo fa lentamente.
Guardo lo spread al mattino e a chiusura, quasi facessi il rosario. Vorrei tanto credere alle panzane di certi politici che dicono che si dovrebbe elargire ancor più denaro. Vorrei credergli e illudermi, non vorrei esser conscio del fatto che non abbiamo un euro. Vorrei essere non conscio e basta, avere più leggerezza.
Non ho ancora finito di leggere il partigiano Johnny, ma immagino che egli avesse un motivo per combattere, magari un futuro migliore. Invidio anche lui, invidio troppe cose oggi, ma almeno loro sapevano cosa ricostruire, perché le macerie sono ben visibili e le cose concrete aiutano anche le anime fragili. Ma qui in macerie c’è il tessuto sociale e incasellare mattoni mi sembra cosa più semplice, perché a occhio non riesco a vedere cosa io possa fare, come sentirmi utile.
Il giorno del mio compleanno ad Accordi e Disaccordi hanno intervistato Giuseppe Conte; lo ascolto da un po’, a dire il vero. Però ieri sera, con rammarico, ho scoperto di avere fiducia in un politico e la cosa mi inquieta, come tutte le cose nuove. Ho guardato e riguardato la parte finale, quando si commuove; sento che si sia commosso seriamente, senza finzione, sento che sta dando il massimo, sento che meglio di così, al netto degli errori, umani e legittimi, sia una fortuna avere lui adesso anziché Salvini.
Ci ho pensato e ripensato, ma finalmente capisco, nonostante l’amara abitudine alla diffidenza, che mi fido di un politico. Il mio momentaneo “innamoramento” mi è diffidente. Mi è cosa nuova, ma in tempo di quarantena tante cose risultano nuove, anche ammettere che finalmente mi sento rappresentato. Sarà la quarantena, mi dico. Vedremo, quando tutto finirà, se questo sentimento nuovo si riconfermerà o meno.
Appoggiarsi a qualcuno è naturale in periodo così. Ma al momento mi godo questa sensazione perché è una delle poche cose che, a me e forse anche ad altri, rimangono da fare.