Il 7 aprile si è celebrata la “Giornata Mondiale della Salute” e mai come ora – data l’emergenza pandemica che stiamo attraversando – tale ricorrenza è di cruciale attualità.

La giornata ha fondamentalmente lo scopo di richiamare l’importante tema della copertura sanitaria universale, gratuita, per tutti e ovunque (Universal health coverage: everyone, everywhere), declinando di volta in volta la giornata sulla base delle specifiche realtà e situazioni.

Quest’anno la giornata in Italia è stata celebrata da People’s Health Movement (network globale presente in circa 70 Paesi che si batte per l’accesso universale alla salute) attraverso la Campagna “Dico32 – Salute per tutte e tutti” ed “Our health is not for sale” (La nostra salute non è in vendita). I suddetti documenti, sottoscritti da decine di Associazioni compreso Isde, sono qui disponibili e credo ci siano pochi dubbi sul fatto che solo garantendo un accesso universale al servizio sanitario pubblico è possibile tutelare la salute collettiva e, specie in corso di pandemia come l’attuale, contrastare e rallentare il contagio. Purtroppo, anche se il mondo è “globalizzato”, il diritto alla salute non lo è altrettanto come tragicamente dimostra il decesso in Usa del giovane di 17 anni cui sono state negate le cure perché sprovvisto di assicurazione.

Le tematiche del 7 aprile e l’attuale pandemia – che fortunatamente comincia a mostrare anche nel nostro paese segni di rallentamento – inducono a doverose riflessioni, indispensabili se vogliamo trarre qualche insegnamento da questa dolorosissima vicenda.

Parto dal dato dei 96 medici morti nel momento in cui scrivo, dato che non posso non definire “una strage”. I medici, specie di famiglia, sono stati letteralmente mandati allo sbaraglio, in ordine sparso, senza piani coordinati di intervento sul territorio, con approcci e procedure diverse non solo da regione a regione, ma anche da comune a comune e soprattutto senza adeguate protezioni così da divenire loro stessi fonte di contagio.

I massimi sforzi sono stati indirizzati all’ultima fase dell’approccio medico: l’implementazione delle terapie intensive, ma senza fare di tutto affinché il numero minore possibile di pazienti arrivasse alla fase finale della malattia, cosa possibile solo se a fronte di una rete capillare di sorveglianza sul territorio. Quasi che l’epidemia fosse un problema di salute individuale e non, innanzitutto, un problema di salute collettiva! Molte cose evidentemente non hanno funzionato in questa emergenza che ci ha trovato colpevolmente impreparati ed esemplare a questo proposito è la recente lettera inviata dagli Ordini dei Medici della Lombardia ai vertici della sanità regionale ed in cui si fa un’analisi dettagliata degli errori commessi.

I problemi vengono da lontano e col Covid-19… “tutti i nodi vengono al pettine”! Fu infatti l’introduzione di logiche privatistiche e di pagamenti a prestazione o assimilabili nel 1992/93 con i decreti legislativi 502 e 517 a segnare il progressivo smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale: si è perduta così, in modo pressoché totale, la cultura della prevenzione, il cui caposaldo sono servizi distrettuali decentrati, sicuramente meno “redditizi” rispetto a prestazioni altamente specialistiche, ma molto più efficaci per tutelare la salute pubblica. Per non parlare dei tagli al personale sanitario che fra il 2008 e il 2017 a livello nazionale si è ridotto di ben 42mila unità (-6,2%) e di cui si prevede un ammanco di circa 16.700 medici nel periodo 2018-2025. Forse la privatizzazione, particolarmente spinta proprio in Lombardia, ha avuto una parte di responsabilità nella particolare virulenza che ha caratterizzato l’epidemia in questa regione.

Non vi è dubbio che in una situazione come l’attuale sarebbe stata fondamentale l’esistenza di una unica regia, in grado di intercettare tempestivamente il focolaio pandemico, raccogliere in modo capillare le informazioni e i dati per poi elaborare strategie coordinate; si sarebbe così evitato di produrre maree di numeri spesso difficilmente interpretabili e di affidare la gestione dell’emergenza alla Protezione Civile, non certo pensata per eventi di questa natura.

E’ desolante sapere che esisteva nel nostro paese un organismo perfettamente idoneo allo scopo quale il Centro per la Sorveglianza e Prevenzione delle Epidemie (Cnesps) dell’Istituto Superiore di Sanità (Isa), inspiegabilmente smantellato – come denunciato da Laura Margottini il 2 aprile sul Fatto Quotidiano – nel 2016. Si ritenne forse che le pandemie fossero un retaggio del passato e che non fosse quindi necessario mantenere funzionante quella che era l’”architrave” della risposta pandemica in Italia? Non sarà il caso di ritornare sui propri passi e ripristinare tale struttura, visto che questa pandemia non è la prima e non sarà purtroppo neppure l’ultima?

Molte altre sono le riflessioni che questa vicenda induce e dovremmo – ora più che mai – trarne adeguati insegnamenti perché non tutto dovrà ritornare come prima visto che proprio il “prima” era il problema. Molto spesso abbiamo sentito ripetere da governanti e politici in queste settimane: “prima viene la salute, poi l’economia”, musica per le nostre orecchie che vorremmo continuare ad ascoltare perché la salute e la vita che Covid-19 porta via non credo siano diverse da quella che si porta via l’inquinamento, la cattiva qualità dell’aria, i pesticidi e i mille veleni presenti non solo nell’ambiente, ma nei nostri stessi corpi. Forse che un avvelenamento lento e diluito nel tempo quale quello che l’inquinamento comporta, suscita minor effetto di un evento acuto, come l’attuale epidemia?

Eppure tutte le sofferenze meriterebbero pari rispetto e attenzione, anzi. Covid-19 sembra risparmiare l’infanzia, che invece rappresenta il bersaglio preferito dell’inquinamento. Perché non suscita uguale clamore il record – che vanta l’Italia – di bambini che si ammalano di cancro e su cui da anni cerchiamo di accendere i riflettori senza purtroppo riuscirci?

Per concludere penso che più che mai oggi dovremmo rivedere radicalmente il nostro modo di vivere e i fondamenti stessi che guidano la nostra società, cominciando proprio dal porre al primo posto la salute, ben sapendo che la salute delle persone non può essere disgiunta da quelle del pianeta e che non possiamo illuderci di essere “sani in un mondo malato”.

Premiare la salute quindi e non la malattia, come da tempo proposto dalla Fondazione Allineare Sanità e Salute e dettagliatamente esposto in questo articolo e in questo capitolo, potrebbe essere il primo passo da cui ripartire per andare nella giusta direzione.

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