A volte Massimo Cacciari è davvero fastidioso. L’altra sera dalla Gruber si è esibito nell’ormai ripetitiva performance di quel “benaltrismo” su cui ha impostato la propria maschera televisiva; format teatralizzato risalente al pionieristico esempio di Gino Bartali e al suo “gli è tutto da rifare”, negli anni Cinquanta del secolo scorso.

Oggetto dell’invettiva era il premier Giuseppe Conte, reo nella conferenza tenuta poche ore prima di aver offerto un segno di speranza; parlando di “future primavere”. Scelta comunicativa sensata, a fronte della crescente nevrotizzazione di una consistente parte del popolo italiano, dopo un mese di clausura totale. Nell’impossibilità tecnica di indicare date plausibili (e non mendaci) per l’uscita dall’emergenza in atto.

Che cosa – piuttosto – avrebbe preteso il filosofo veneziano, irsuto di pelo e di ragionamento, rispetto a quanto denunciava come gravissima “infantilizzazione”? Nient’altro che il disperante messaggio penitenziale da parte di un premier che avesse sostituito il completo blu di prammatica con il saio di Savonarola.

Eppure il pensatore con trascorsi in politica dovrebbe avere ben chiaro che il discorso pubblico (specie quando fa appello ai sacrifici) trae forza e credibilità dal consenso; dalla capacità di prospettare scenari di medio termine mobilitanti. Tutte ragioni che non interessano minimamente chi ha trovato il proprio ruolo mediatico nella gag della scontentezza a prescindere; nel narcisismo della contrarietà a priori.

E dire che Cacciari, profeta di sventura per audience, sbarellate ne ha prese pure lui. Come quando, agli albori della campagna per lo sventurato referendum Boschi-Renzi, gli tributava il proprio appoggio, seppure “turandosi il naso”. Endorsement poi ritirato quando risultò indifendibile la ratio di tale provvedimento: l’idea da bar sport (o da Confindustria) che i problemi della complessità democratica si risolvono mettendo “uomini soli” al comando, eliminando contrappesi e controlli.

Ma al di là della cronaca spicciola, sembra emergere un problema più generale: la gestione della discussione televisiva nelle modalità che si sono imposte nell’ultimo ventennio. Il talk show rissoso, frequentato da sputasentenze e urlatori; il cui pessimo campione balzò fuori dal cilindro di Maurizio Costanzo con l’elevazione a star del piccolo schermo di Vittorio Sgarbi. Il sedicente cultore del bello, sdoganatore non solo dell’insulto ma anche della coprolalia (per intenderci, il lessico di Cambronne). Che ora appare ridotto alla stregua di un patetico sopravvissuto.

Per questo mi pare di intuire che il sentire pubblico inizi a stufarsi dei caciarosi, preferendo un parterre diverso, composto da competenti e pacati: quelli che sanno di cosa si parla (anche se non esperti dei “tempi televisivi”) e quelli che sanno come si parla (tra persone civili). Qualche esempio si inizia a intravvedere, mentre diventano sempre meno sopportabili i salotti del risentito in permanenza Paolo Del Debbio o dell’insinuante Nicola Porro, lo stridio sovreccitato di Mario Giordano. Il garrulo accondiscendente di Myrta Merlino e – soprattutto il trash mistico/voyeuristico della Barbara D’Urso.

A voi lettori valutare chi effettivamente stia prendendo le distanze dalla volgarità mediatizzata. Del resto io non sono all’altezza di proporre alternative. Per questo dovrei chiedere lumi al mio ex collega a Scienze della Comunicazione Carlo Freccero (sebbene anche lui ci sia andato a nozze con la televisione a effettacci). A fronte di chi – invece – staziona tuttora nel modo di discutere finalizzato soltanto a dimostrare – come dicevano un tempo gli operai – di “avercelo più lungo”.

Tra le altre conseguenze al tempo del Coronavirus (e del cambio di fase storica che pare annunziare), la virtualità comunicativa dovrebbe imporsi nuove disposizioni in materia di rigore e serietà. Per evitare lo spreco di intelligenza che si imponeva nel “modo” da Seconda Repubblica. Mettendo a “rischio macchietta” persone che pure avrebbero cose da dire. Come lo stesso Cacciari. Per non incorrere anche loro nel destino banalizzante del pur immortale Gino Bartali.

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