Una smania, una frenesia sta percorrendo l’intera penisola da nord a sud, quella di ritornare al lavoro. In teoria, ovviamente, legittima, per la carità. Se non fosse che per lavoro si intende sempre lo stesso di prima, anzi, rafforzato. Chi si aspettava/sperava ingenuamente (eppure erano anche intellettuali o sedicenti tali, e anche di una certa età…) che potesse cambiare qualcosa, rimarrà amaramente deluso. Già, perché il lavoro in Italia è sempre e solo e banalmente e stancamente e ripetitivamente quello: il cemento. E l’asfalto.
Del resto, in piena emergenza virus, con la pandemia che faceva strage, Luigi Di Maio e Vito Crimi avevano il coraggio di indire una conferenza stampa dall’illuminante titolo di “Piano rilancio cantieri e lavoro”. Lo scopo era banale: tranquillizzare il partito del cemento: “Presto tornerete a operare”.
Del resto che oramai il M5S si sia appiattito sulla linea di governo che senza soluzione di continuità ha dominato dal dopoguerra in poi (e denunciata in epoca non sospetta da Antonio Cederna e Mario Fazio e con altre parole da Pier Paolo Pasolini) è confermato da una intervista rilasciata a questo giornale il 6 aprile da Giancarlo Cancelleri.
Una intervista terribile perché conferma che per accelerare le opere (non chiamiamole pubbliche, per favore, solo i danni sono pubblici, i vantaggi sono privati) si nomineranno dei commissari (che già si sa avranno ius vitae necisque anche in campo ambientale e territoriale) e sarà accelerato anche il controllo sugli appalti e l’antimafia. Il bello è che l’intervistatore gli pone la domanda: “Voi del M5S siete sempre stati contrari alle grandi opere, e ora volete facilitarle.” E lui risponde candidamente “Di fronte ad un contesto politico e ad un quadro economico totalmente diverso da qualche anno fa, è necessario cambiare l’agenda politica. La priorità adesso è creare lavoro, usando soldi pronti ma fermi.”
Non so se questo Cancelleri (tra l’altro un miracolato: già magazziniere, poi geometra e adesso viceministro) si rende conto di ciò che dice: i grillini sono sempre stati contrari alle grandi opere perché erano soldi nostri buttati dalla finestra e in compenso avevano pure pesanti ricadute sul territorio (cito Torino-Lione, Terzo Valico, Tap). Quindi c’erano valide ragioni a monte per contrastarle. In realtà poi non l’hanno fatto (vedasi il mandato di Danilo Toninelli e l’inutilità della commissione sulle grandi opere, denunciata da Marco Ponti nel suo Grandi operette) fatta salva la lotta – peraltro solo di facciata – contro il Tav. E adesso invece confermano che bisogna farle (tutte) perché creano lavoro. Alla faccia della coerenza!
E riesce persino arduo conteggiare quanti via libera vogliano dare. Io ne enumero alcuni, ma invito i lettori ad integrare il molto sommario elenco. Dunque, vediamo, si va dalle varie tratte ad alta velocità quali la Brescia-Verona, la Napoli-Bari, la Fortezza-Ponte Gardena, la Salerno-Reggio Calabria, alle autostrade, la Orte-Mestre, la Termoli-San Vittore, la Ragusa-Catania, la Campogalliano-Sassuolo. Oltre alle Pedemontane, quella lombarda e quella veneta.
Il tutto finanziato con soldi pubblici: ricordatevelo la prossima volta che andrete a votare (io in quella cabina non ci metto più piede). Soldi pubblici per devastare il territorio, piuttosto che per metterlo in sicurezza, piuttosto che costruire ospedali, piuttosto che rifare acquedotti, piuttosto che finanziare ricerca e cultura. Soldi pubblici, perché il liberismo selvaggio va bene, ma dove il privato non interverrebbe perché non gli conviene ecco in aiuto Babbo Natale.
Giorgio Meletti afferma a commento di questa politica: “Questa classe dirigente è più lenta degli spiantati a capire che cosa ci sta arrivando addosso, e che bisognerà fare scelte e rinunce dolorose, decidere se dare da mangiare ai camerieri dei ristoranti rimasti a piedi o scavare tunnel ferroviari.”